Torno a casa. Sono passati due mesi ormai da quando ho contemporaneamente rifiutato un lavoro, contattato una tenuta in Toscana, fatto le valigie e salutato i miei.
Un intervallo di tempo che, a voltarmi indietro, sembra rincorrermi. Sembra rimarcare senza alcun indugio la mia incapacità di spingermi oltre.
L’oltre che, in questo caso, sarebbe rappresentato dallo stare. Dal qui. Dal ciò che già si ha.
Due mesi sono infatti esattamente il tempo entro il quale i miei livelli di entusiasmo, noia e irrequietezza si annullano, dando vita all’ennesimo mutamento della forma.
Superficiale. L’ennesimo mutamento sarebbe in fondo una scusa per restare a galla. L’eterno ritorno dell’uguale, direbbe Nietzsche scagliandosi prepotentemente a favore dell’accettazione.
Torno a casa, e lo faccio senza neanche disfare la valigia: tra neanche una settimana sarò di nuovo in viaggio. Ma se mi ascolto, proprio adesso, dico che non mi va. In fondo, di tutto questo, c’è ben poco che mi va.
Ti direi la libertà
Giulio è il mio migliore amico. Si potrebbe dire che anche lui viaggia, anche se siamo entrambi stanchi di quest’etichetta più affascinante che, di fatto, sostanziosa. Ci siamo conosciuti in Olanda, e da allora abbiamo praticamente condiviso almeno parte di tutti i nostri spostamenti. La sua base è il Mugello, ed io, ogni qual volta ne ho l’occasione, o semplicemente il desiderio, lo vado a trovare, dilatando il tempo della mia visita alla mercé della nostra istintiva discrezionalità.
Ho lasciato la Tenuta di Spannocchia lunedì, e lunedì stesso ho raggiunto Giulio a Borgo San Lorenzo. Volevo fermarmici due giorni, poi trasformatisi in cinque: un tempo alieno da una qualsiasi definizione.
Il Mugello è un posto magico la prima volta, affascinante la seconda e piacevole la terza; dalla quarta volta in poi rimane un posto che io e Giulio ignoriamo, trascorrendo le giornate in casa ad affaccendarci su un futuro incerto e un presente lamentoso.
“Sei contento che la prossima settimana sarai in Grecia?”, mi aveva chiesto lui, poco prima che ci augurassimo la buona notte per l’ultima notte.
“Ho voglia di lavorare”, risposi io, apparentemente ignorando la domanda. “No, non lo sono”, facendo quasi fatica ad ammetterlo. “Ho voglia di lavorare. Di avere degli orari, un senso di responsabilità, un impegno, un riconoscimento. Forse ho bisogno di stabilità. Mi capisci?”
“Ti capisco, Lam” (Lam è come Giulio, o Lag, è solito chiamarmi).
“Sono stanco di fare il volontario. Sono stanco di essere libero, eppure, se mi chiedessi che cosa, in questo momento, il lavoro mi darebbe in più di un’esperienza di volontariato, ti direi la libertà.”
“Ma allora perché vai in Grecia?”. Domanda essenziale, diretta, banale. Domanda giusta, che si apre però purtroppo ad un’unica non risposta: “perché sono passati due mesi Lag.”