E allora scrivi. Fallo sdraiato sul tuo letto di pallet, mentre fuori qualche cane abbaia e delle persone non smettono di conoscersi.
Scrivi perché finalmente non hai paura dell’altro, non hai paura che il mondo vada avanti senza di te.
Scrivi con della musica di sottofondo, perché si può fare anche così, con leggerezza.
Oggi sono
“I’m here, in Hopeland, moved by curiosity and fears.” L’ho detto fin dal primo giorno, mentre facevo un passo dentro un cerchio di yuta. Eravamo tutti lì, sotto la quercia, a raccontarci in poche parole: nome e perché fossimo qua. Ecco sono in Grecia, a Koutsopodi, ad Hopeland, per la paura del vuoto e per la curiosità, questa volta, di starci dentro.
Mi sveglio diverse volte ogni mattina prima di alzarmi dal letto e riprendere la vecchia abitudine di bagnarmi mani e faccia con acqua gelida. Noi tutti dormiamo in uno stanzone con una decina di letti a castello e un pavimento scricchiolante.
Ogni mattina alle 9:00 poi, ci si incontra al fireplace: un cerchio di terra nuda attorno ad un bracere di cenere e pietre, e da lì, dopo con una metafora aver descritto ciascuno il proprio stato emotivo, ci si divide i compiti.
“Oggi sono vento: perché mi sento scostante, come può essere un uragano o un soffio.”
“Oggi sono rugiada: fresca e riposata, che col tempo tenderà a scomparire.”
“Oggi sono lucertola: ho bisogno di un po’ di sole per riprendermi.”
E via così, in un luogo dove l’ascolto sembra essersi preso il posto della vergogna.