“Are there any announcements?”, era lunedì, era fireplace, era Vero che chiedeva se ci fossero avvisi che la comunità volesse condividere con se stessa.
“There is the chance to go to the hospital in Argos for the blood donation. Does anyone feel like?”, era la voce di Despi, la piccola e dolce Despi.
“Fuga: il mio modo preferito di stare al mondo.”, tenere sempre bene a mente queste parole.
“I want!”, “Me too”, “Sure”…, così io, Emile, Giulia, Gagoù, Gonzalo e Thomas ci eravamo segnati, casualmente insieme.
“Cool! So on Wednesday, in the morning, we’ll go to Argos.”, Despi, sempre piccola e sempre dolce Despi.
“Are there any more announcements?”, come teneva le redini Vero nessuno.
Don’t let the green grass fool you
Non si parlava più di tende, di cacca di cavallo o di orti: la nuova wave prendeva il nome di personal project. Ciascuno, nella forma di un singolo o di un gruppo, doveva presentare a Martin un progetto sul quale, se approvato, avrebbe lavorato fino alla fine mese a Hopeland.
Scale in eco-building per Steph. APPROVATO.
Erbario sulle erbe di Hopeland per Giulia, Turi e Niki. APPROVATO.
Queer shelf (idea geniale) per Gagoù, Flo, Anastasia e Sarah. APPROVATO.
Meridiana per Emile e Jacopo. RIMANDATO.
Ovvio. Martin non solo voleva un progetto composto da idea, sviluppo, materiali e pianificazione. Martin voleva soprattutto la motivazione. L’inner motivation, il fuoco che accendeva la miccia della passione dell’interesse del blablabla… e come potevo dire a Martin che a me della meridiana sì me ne fregava, perché sai le costellazioni, sai la relazione con il territorio, sai leggere l’ora attraverso l’ombra di uno stecchino, ma soprattutto mi fregava di Emile.
Ecco forse Martin c’aveva visto lungo. O forse no. Fatto sta che, inciampati entrambi sull’inner motivation del fuoco del segreto del sacro graal, avevamo simultaneamente mosso un passo verso altre direzioni.
Emile, artista qual’era, aveva deciso di disegnare una mappa di Hopeland, per poi cucirla, appenderla o farci qualche altro strappo figlio della sua creatività. APPROVATO.
Io, che avevo pochi pensieri, mi ero incagliato da settimane sulla solita domanda: “where is Greece?” Vivevo in un eco-villaggio con altre venti/trenta persone da tutto il mondo. Si parlava inglese, si mangiavano pancakes, si beveva birra lager, si ascoltava Current Joys. Dov’era la Grecia?
E allora pensa Jacopo. Come sei solito connetterti con i luoghi che visiti?
Risposta: cibo.
E pensa ancora un po’ Jacopo. Cosa ti diverte ultimamente?
Risposta: cucinare.
Dai che stai andando bene Jacopo. Hai una passione?
Risposta: l’aperitivo.
“Vado in giro dai produttori locali ad imparare come si fanno i prodotti tipici (formaggi, olio d’oliva, prodotti da forno, vino…) e poi porto un po’ di Grecia qua ad Hopeland sotto forma di aperitivo anzi, com’è che lo chiamano qui? Meze. Sotto forma di Meze.” per Jacopo. APPROVATO.
E allora Google Maps per vedere se c’è qualcuno nei dintorni. C’è! Mail: “I’m Jacopo, 27yo, from italy… I would love to visit your place… to get in touch with your culture…” ero abituato a questa sorta di presentazione. Facile. E dopo 6/7 mail inviate qua e là, due lunghe giornate di riposo nell’attesa di risposte: amavo il mio personal project.
Poi una risposta, dal panettiere del paesino vicino: “vuoi venire stanotte a darmi una mano in panetteria?”
“Sì”, di getto, “a che ora?”
“Alle 4 di notte si inizia.”
“Cazzo.”
E allora sveglia alle 3:30 illudendosi di non far rumore nella tenda e poi dritto verso Malandreni, il paese con 200 abitanti, 3 bar e una panetteria appunto.
Per le 9 dovevo essere di ritorno: serviva il van, dovevamo andare a donare il sangue. Così mentre tutti gli altri si erano rimessi a lavoro sui loro progetti, noi, io, Giulia, Gagoù, Emile, Gonzalo, Thomas e Despi, ci muovevamo direzione Argos.
Ricordati della fuga, sempre.
L’ospedale era all’ingresso della città: piccolo, pulito, gentile, come le donne che vi lavoravano.
“Compilate questi fogli e poi fate un cenno quando siete pronti.”, aveva detto l’infermiera in un inglese claudicante.
Giusto qualche riga, poi Emile: “have you read this?”
“What?”, non avevo capito a cosa si riferisse.
“Here. Look.”, indicandomi un riquadro al centro del foglio.
Niente sesso tra uomini dopo il 1977. Ci siamo guardati, abbiamo sorriso e insieme siamo andati dall’infermiera, forse anche un po’ imbarazzati.
“Well”, indicando col dito quella riga, “apparently we can’t donate.”
L’infermiera allora si era messa a leggere il foglio, e solo qualche secondo dopo aveva rialzato lo sguardo: “It doesn’t matter. It’s an old rule.”
La procedura continuò liscia con Gonzalo che aveva consegnato il foglio e stava superando i primi accertamenti. Poi io, un piccolo prelievo al dito, e prima di misurare la pressione una domanda da parte dell’infermiera: “how many hours did you sleep last night?”.
Ci metto poco a contarle: “Four.”
“Only four?”
“Yes. I’ve worked in a bakery last night.”
“I’m sorry, but you can’t donate. Four hours aren’t enough.”
Inutili i tentativi di corruzione. Ero stato bocciato alla donazione del sangue per la seconda volta e non mi restava che guardare gli altri lasciarsi rilassare su quelle comode poltrone di pelle col braccio in fuori bucherellato da un ago.
Anche Gagoù intanto era stata bocciata. Pressione troppo bassa per la nacchera. “Ci rifaremo”, sguardo d’intesa.
Così pranzo ad Argos e poi lentamente back to Hopeland.
Quel pomeriggio ci avevano consigliato di starcene tranquilli, così ne approfittai per prendere il tablet e mettermi a scrivere un articolo. Così pensavo, non solo agli eventi che volevo raccontare, ma anche e soprattutto a Emile: “dov’è? che fa? potremmo stare un po’ insieme.” Ma c’era qualcosa che mi diceva di non distrarmi, di lasciarlo libero e di pensare a scrivere.
Qualche minuto dopo lui che si affaccia nell’ufficio: “Jacopo, I need to talk to you.” Me lo sentivo. Non dico una parola, ed esco.
Neanche un ciao, un come stai, un che fai… no, subito quelle parole: “I’m gonna leave tomorrow.” Pausa. “I need to be with my boyfriend. We had a call and he felt something weird in me. I love him Jacopo, and I need to be with him. I’m so sorry.” Pausa.
Pausa.
Pausa.
Dove guardo adesso? Su quelle altalene non mi veniva fuori nessuna parola. Solo uno sguardo impegnato a cercare qualcosa a cui aggrapparsi che non fosse Emile. “Let’s move. Let’s go to the oak tree.”
Emile che parlava e provava a spiegarsi. “Tu mi piaci ma. Sto bene con te ma. E’ solo un mese e.” Ormai aspettavo quella congiunzione che mi restituiva la realtà sotto forma di schiaffo, e intanto ascoltavo.
“Di’ qualcosa Jacopo!”, neanche so chi, tra me e lui, aveva detto queste parole.
Non sapevo cosa dire. Anzi forse lo sapevo ma avevo paura: paura di allontanarmi dal me stesso che ero solito conoscere. Avrei potuto essere vittima. Avrei potuto essere amore incondizionato. Invece ero Jacopo, ferito a grato.
Così glielo dissi che ero dispiaciuto, e gli dissi che forse ero arrabbiato con lui, e poi che mi sentivo spaventato, ferito, vuoto. Poi gli dissi anche che c’era una parte di me che era felice, che era onestamente felice per lui, perché mosso dall’amore. E infine che ce n’era un’altra che era grata.
“You are the first guy I held hands with in a public space. You are the first guy I kissed in a public space. Emile, you gave me courage and acceptance. So, thank you. Just thank you.” Pausa. “Man, I’ve got a question: this morning we bought Aperol and Prosecco in Argos. Do you feel like going up to the hill and celebrate this moment? Time for being sad will come, but now I wanna celebrate you, our relationship, our friendship with Giulia and Gagoù. What do you think?”
Pausa. Festa. Abbracci.