“You. You. I wanna talk to you!”
Eravamo almeno 15 a camminare sotto la grande quercia: chi con gli occhi chiusi per paura di incorciare lo sguardo di qualcuno, di qualcuno di speciale o di importante, o di qualcuno con il quale in un mese non si è mai “andati dentro”, perché troppo uguali da farsi spavento; e chi con gli occhi aperti, perché in quelli altrui, a volte, è così bello perdersi.
Eravamo almeno in 15 ad aspettare che Vero suonasse il gong e pronunciasse la sua domanda.
“What did inspire me from you?”, la prima.
“What didn’t I dare to tell you?”, la seconda.
“What would I like to do with you, since the little amount of time left?”, la terza.
Alex, rossa di capelli, bianca di carnagione, aveva intercettato il mio camminare ad occhi aperti al principio della seconda domanda: “I have the feeling that you don’t like me. Sorry, I wanted to tell you. Is it true?”
Un sorriso. La mia risposta.
La ricerca dei suoi occhi. Il seguito.
“Thank you for sharing Alex.”, silenzio. “And yes, it’s true.”
E’ sempre più bello lamentarsi insieme
20 minuti per fare una doccia e uno zaino sono l’esatto ammontare di tempo che sguscia via dal definirsi scarso o abbondante.
Il pullman Koutsopodi-Atene passava alle 19.30. Se Io, Gagoù, Giulia, Anastasia, Kosta e Rachele avessimo avuto un piano, o una lista di cose da fare prima della partenza, saremmo stati sicuramente in ritardo. Ma naufragando nel vuoto delle cose iniziate, o di quelle volute iniziare, potevamo definirci solamente di fretta.
L’ora e mezza di viaggio sul pullman è stata un piacevole schiaffo. Il mio tic alla gamba non finiva di farsi veicolo di un messaggio ed io, distratto, confuso, me stesso, mi sono visto iniziare una manciata di cose senza mai godere del loro compimento. Sketch, scrittura di una lettera ad Emile, dormire, disegno di un tatuaggio, di nuovo la lettera, un’altra, alla stessa persona, musica. Tanti piccoli inizi. Nessuna fine. Forse.
Venerdì 21 aprile: Atene, cena, party.
Kosta e Rachele vivevano di vita propria, ed era bello vederli abbracciati naufragare insieme nella loro dimensione. Anastasia sapeva che avrebbe dovuto incontrare degli amici. Io, Gagoù e Giulia, a mezzanotte e mezza ci siamo seduti in una taverna cretese per iniziare la nostra cena.
Che esperienza trascendentale la città: la gente, i rumori, il buio un po’ finto un po’ vero.
Sabato 22 aprile: Atene, acropoli, yogourt.
E’ sempre difficile definire se il tempo successivo alla mezzanotte appartenga al giorno successivo o a quello erroneamente in corso: never mind, alle 6 del mattino eravamo a casa. 1-0 per la città.
La doccia fredda è la migliore non-invenzione che l’uomo avesse potuto non-fare: dopo esserci svegliati tonti e stanchi e appiccicosi e sfatti, io, Gagoù e Giulia ci siamo buttati prima sotto una doccia gelida e poi su un terrazzo afoso a parlare del terremoto che aveva improvvisamente fatto muovere il palazzo, e poi a farci ammiccanti avances perchè sapevamo che prima o poi saremmo tutt* e tre finit* a letto insieme. E sapevamo anche che forse non sarebbe mai capitato.
Mangiare mentre Giulia parla è bellissimo e faticoso: quello che mi ricordo però è che le paste semplici (aglio, olio e peperoncino, e pomodoro e basilico) sono le sue preferite.
Mangiare mentre Gagoù ascolta Giulia parlare è decisamente meno faticoso, ma forse anche meno bello.
Un baklava, anzi due, a testa. In quel momento realizzo che stavo provando stupore per il mio sistema digerente: non un capriccio dopo il primo piatto di carne da un mese a questa parte e 6 bicchieri equamente divisi tra birra e gin tonic. “Il conto arriverà, speriamo non domani mattina.”, pensavo mentre ingurgitavo quella poltiglia di sciroppo colante nel mio adorato primo caffè greco di giornata.
L’acropoli è molto bella. Sfruttare la solita fotografia della carta d’identità di Emile per non pagare all’ingresso pure. Anche se sicuramente non eticamente comparabile.
“Tonight there is a rave with some techno and electronic music! Will you join us?”, cazzo è adesso?
Stavamo camminando a ritmo lento verso la stazione del pullman che ci avrebbe riportato in serata a Koutsopodi, quando Gagoù, rompendo il passo, aveva urlato: “Uuuuh! Yogourt!”, letteralmente.
La musica del chiosco in pieno centro ed il chiosco in pieno centro di per sè, sarebbero stati più che sufficienti per farmi ignorare quel artificio commerciale per turisti, ma non avevo fatto i conti con il grido di Gagoù.
Dopo aver ordinato la prima coppetta, i due ragazzi al banco, sicuramente, anche loro gay, o queer, o simpatici e basta erano diventati nostri amici e ci avevano invitat* l’uno al techno-electronic rave e l’altro ad una serata queer con musica pop 2000 tipo Beyoncè Lady Gaga Madonna e altre figlie del loro tempo, alla quale sicuramente non saremmo andat*.
La sera eravamo un solo aggettivo: stanchi. Io e Gagoù stavamo mangiando una fetta di riso (riso vecchio avanzato diventato un pezzo unico) e ci stavamo lamentando di quanto avessimo buttato via gli ultimi due giorni tra alcool, poche pochissime ore di sonno, poca pochissima acqua e troppo chilometri trascorsi a piedi, mentre bella come il sole Giulia si dimenava nel prendersi cura di noi. E’ sempre più bello lamentarsi insieme.
Domenica 23 aprile: mezza maratona.
Ecco il motivo che ci aveva spinto a rinunciare al techno-electronic rave e ad iniziare la sequela di lamentale serali.
6:50 sveglia. Colazione improvvisata: “forse mezza banana e due noci. Dai anche due gallette. Caffè? Sicuro. Un uovo sodo: ho bisogno di proteine. Cazzo, ho mangiato troppo”, e poi vedo Conni con il suo oat meal e la sua mela: “Eat how much you feel. There aren’t rules.” Namastè Conni.
Le due ore prima della mezza maratona sembrano una gita scolastica: ci si prepara, si monta sul pullmino, si ascolta della musica, si ride, si scherza, ci si ama surfando sull’onda dell’adrenalina.
I secondi prima della mezza maratona fa freddo e si realizza che si trascorrerano le successive 2/3 ore a correre. “Me le ricordavo più divertenti le gite scolastiche”, l’Io scrivente.