La mezza maratona merita un capitolo a sè.
21 chilometri, pensavo.
21,1 e qualcosa in realtà.
E poi noi. Perchè la mezza maratona si corre da soli ma anche un po’, un bel po’ insieme. Anche se questo lo si scopre solo alla fine.
Io non ho mai corso più di un’ora e zero cinque in vita mia. Io ho un paio di scarpe da ginnastica pagate 23€. Io ho dormito l’ultimo mese su un pallet, ignorato tutte le buone regole di una sana alimentazione e sono ricaduto nella solita tossica relazione con l’alcool.
Io ho amato correre la mezza maratona.
Gli applaudo, accelero, rido, sto da Dio.
“I’m afraid I need to poop.”, Gagoù, pochi secondi prima dello start.
“Let’s see: how many things could destroy our run?”, mentre la corsa iniziava e io e Gagoù ci eravamo sapientemente collocati tra il gruppo degli amatori, quelli più vecchi.
“Well, my pants are dropping… You need to poop. Then what else? Your knees, they don’t look so stable… and also let’s be honest: the lack of sleeping hours and our preparations don’t play with us.”
Quante cazzate.
Dopo un chilometro saluto Gagoù: “vai al tuo passo Jacopo”. “I will. I do”, ciao Gagoù.
Qualche minuto dopo rompo il fiato e mando un vocale a Despi: ho dimenticato il bankomat di Hopeland per pagare il pranzo alla taverna. Bella scusa per distrarsi. Anche se non smetto di correre e il messaggio diventa una conversazione tra fiatone e parole.
Dopo tre chilometri (lo scopro dall’applicazione in vivavoce di un anzianotto corridore) mi arrendo: devo pisciare. Mi fermo, faccio pipì, riparto: sento le gambe stanche, di già.
Dopo una ventina di minuti una salita. Il primo ricordo: la tenuta in Toscana. Febbraio e Marzo passati a correre in salita tra i boschi, tutto torna. Me la mangio, raggiungendo Conni prima e Sara poi. Ho le gambe un po’ meno stanche.
“Vai piano Jacopo”, ho pensato, “siamo solo all’inizio.” Ma io amo le salite. Le ho sempre amate. E, come un bambino, fatico a controllarmi.
Al quinto chilometro mi rendo conto di essere al quinto chilometro. Lo vedo scritto per terra e non mi piace: vorrei non sapere quanto manca perchè so che altrimenti inizierei una sorta di conto alla rovescia che dilaterebbe all’infinito l’attesa. Altra cazzata. Ma lo scopro più avanti.
Fino al chilometro dieci è tutto regolare. Il fiato inizia a regolarizzarsi, le gambe pure, il paesaggio pure, la distanza tra me e gli altri corridori pure. Sono sempre meno stanco ma un po’ più annoiato. Al secondo stand prendo una bottiglietta d’acqua e me la verso in testa e sulla schiena: non che ne avessi bisogno, ma almeno faccio qualcosa.
Al chilometro undici prendo la barretta super energy a base di caffeina che ci hanno dato in sede di iscrizione: ho aspettato undici chilometri per gustarmela. Fa schifo ma la aspettavo da così tanto che la mia mente mi convince che sia buona. Ne mangio metà, la rimetto in tasca, tiro fuori le cuffie. Ho le mani sudate, non riesco a prenderle dalla custodia: meglio così mi distraggo.
Siamo a poco più di metà: ho caffeina in corpo e musica nelle orecchie. Inizia lo show.
Cremonini: le prime 6 dell’ultimo album.
Dopo La ragazza del futuro mi aspettavo però PadreMadre: ho sbagliato. Pensavo di aver messo l’album live ad Imola e invece ho messo l’ultimo in studio. Vabbè, ho le mani troppo sudate per manovrarle sullo screen.
Intanto sto continuando a correre e non me ne rendo conto, come non mi rendo conto del chilometro 13-14-15 scritti per terra. Incrocio altri corridoi: “sto accelerando o stanno rellantando loro?”. Non ci penso neanche un secondo: la prima. Sto bene!
“Grazie. Grazie. Grazie.” Ringrazio tre volte ad alta voce l’Universo, e nel farlo sto anche ringraziando il mio corpo, le persone con le quali ho vissuto quest’ultimo mese, Emile, Gagoù, Giulia, Despi, Vero. Ringrazio La Julienne. Ringrazio le corse nel bosco in Olanda. Ringrazio il Presente e mi prometto di non perdermi più nei miei viaggi temporali e nelle mie pippe mentali. Sono in uno stato trascendentale, così inizio a cantare.
“Non farlo Jacopo. Risparmia il fiato”, qualcuno dentro di me prova a tendere le redini. Ma io sono Spirit cavallo selvaggio, ed inizio a cantare ad alta voce.
Canto Moonwalk e penso ad Emile. “A volte basta una carezza.”, canta Cesare meglio di me. Mi manca, ma non c’è, e un altro qualcuno dentro di me sembra averlo accettato.
Intanto mi faccio la seconda e la terza doccia con le bottigliette che non so ogni quanti chilometri dei gentili volontari ci offrono col sorriso. Io ringrazio, in greco, storpiando la pronuncia.
Sono al chilometro sedici. Mangio un altro po’ di barretta super energy a base di caffeina e cambio album: il live di Cremonini ad Imola. Riascolto La ragazza del futuro, questa volta senza cantarla, e poi finalmente PadreMadre. La canto, tutta. E sul finale ancora di più. Perchè c’è quella frase che mi fa impazzire e che sento trementamente mia.
“E se son stato così lontano è stato solo per salvarmi. Così lontano è stato solo per salvarmi. Così lontano è stato solo per salvarmi. Ma seeeeeeeee…”.
Ripenso a tutti i miei viaggi. Come mi piace questa vita.
Sto cantando. Sto correndo, forte. Vorrei scrivere. Ma non il quaderno, e poi sono al chilometro diciotto della mezza maratona Micene-Argos: “corri Forrest. Corri!“. Sono pazzo.
L’ultimo morso di barretta super energy a base di caffeina. Ancora un paio di docce.
Vado forte. Vorrei raggiungere Gonzalo, ma non lo vedo. Perdo il chilometro diciannove. Vedo un tizio che cammina per strada scalzo e con una medaglia al collo: cazzo lui ha già finito. Gli applaudo, accelero, rido, sto da Dio.
L’ultimo chilometro volo. Rido e volo. Supero l’ultimo ponticello e sento gridare: i ragazzi di Hopeland che non stanno correndo stanno tifando.
Grido. “Ella! Ella! Ella!”.
Sorrido. Cerco l’acqua. Mi prendo l’abbraccio di tutti i miei compagni.
“How was it?”, la domanda più riccorrente.
“I loved it!”, e appoggio i piedi nudi sul prato.