Più passano i giorni più mi rendo conto della potenza di quest’esperienza.
Che poi i giorni passano, non posso farci nulla, e allora devo impararla a gestire questa potenza.
“Ne verrò sopraffatto”, penso, forse attirandomi la sventura. Ma ora che ho paura so cosa farmene.
Canalizzo.
Osservo.
E costruisco.
Non ci sarà altra fine del mondo
L’ultimo giorno a Hopeland il filo con tutte le buste appese era ormai solo più un filo.
Era stata un’idea di Gagoù, quella di mettere un filo nella dining area con appese delle buste, ciascuna con sopra scritto il nome di uno di noi. Così chi voleva poteva lasciare un bigliettino, un ricordo, un pensiero nelle buste che più desiderava.
Un’idea bella e malvagia allo stesso tempo. Come i ricordi: belli e malvagi.
Sono tornato a Torino dopo aver finito le lacrime sotto la quercia.
Finalmente sento che ci sarà qualcosa che mi mancherà: erano troppi viaggi che evitavo la mancanza sotto uno strato di distanza. “Non mi affeziono, così non soffro.”, diceva il mio cervello all’anima.
Questa volta invece soffro. E sono contento. E sono vulnerabile.
Il volo fa ritardo: mi sento in colpa. I miei genitori sono venuti a prendermi a mezzanotte e mezza a Malpensa. Il giorno dopo lavorano e saranno stanchi, mentre io sono tornato da un mese di assoluto godimento, e domani dormirò, credevo.
“Siediti davanti così fai compagnia al babbo che senno si addormenta.”, la mamon prima di chiudere il bagagliaio.
Eseguo. Forse un po’ svogliato. Ma sono migliorato.
Racconto, tanto, non tutto. Siamo entrambi stanchi, il babbo più di me, così lo lascio parlare.
“Sto pensando che forse non voglio prendere più aerei.”, interrompo un attimo di silenzio.
Interpreto il suo silenzio con un: “eccoci qua con un’altra delle sue…”. Gli spiego che è per ragioni di inquinamento, e poi che viaggiare via terra è molto più autentico, e poi che ho conosciuto sti ragazzi francesi che facevano così, e poi che ci sono soluzioni alternative come l’autostop e le gambe…
Forse peggioro la situazione. Forse no. Mio padre è un figo.
Torno a casa e scopro che mi sbagliavo: dormo poco. 4 ore la prima notte, 5 la seconda, 5 la terza. Devo ricorrere alla siesta pomeridiana: “meglio, non saprei che farmene di tutto questo tempo libero.”
La seconda sera apro la busta piena dei bigliettini che quella gente che già un po’ manca s’è presa il tempo di scrivermi.
Vado piano: voglio dare loro, al momento, alle mani che impugnavano quelle penne, ai ricordi, voglio dare a tutto ciò il giusto valore.
Quante cose che mi sono perso. Quanta bellezza ho lasciato scorrere via senza fermarmi semplicemente ad osservarla. E respirarla. Tornassi indietro… no, ho imparato qualcosa da questi viaggi: nessun rimpianto, le cose vanno come devono andare.
La mattina ne pesco un altro: ancora Flo. Due volte Flo. Chi se l’aspettava. E’ ritagliato male, come se appartenesse a qualcos’altro, come se non fosse stato pensato.
“a poem i love a lot,
maybe you find some beauty in it
A SONG ON THE END OF THE WORLD.
Czeslaw Milosz
xxxFlo”
Lo dimentico, fino al giorno seguente. Allora cerco la poesia: la trovo in inglese. Ma le poesie vanno lette nella propria lingua. E’ un linguaggio che supera la conoscenza, e il cuore di lingue ne parla una sola.
Trovo la traduzione in italiano su un sito di una ragazza che mi immagino avere una quarantina d’anni, e che lavora in un ufficio a Mantova, o Piacenza, o qualche altra piccola città del centro nord, e che non ha mai smesso di volersi bene.
Le ultime righe mi fanno pensare. Forse perché mi piacciono. Forse perché Flo aveva ragione.
Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
Czeslaw Milosz, Canzone sulla fine del mondo
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo
Intanto quella paura della quale so che farmene mi ha fatto incontrare Alessia, e Marco, e poi ho fatto i complimenti a Pigna per la vittoria del campionato, e ho chiesto a Roxy se ci prendiamo casa insieme per questo mese, e poi ho fatto il pane.
Ci sono ancora dei bigliettini nella busta. Il tempo ha le sue regole.