I’M DOING WHAT I CAN

da | Ott 16, 2023 | Ottobre 2023

“Exister, c’est boire sans soif”

Jean-Paul Sartre

Che poi l’avevo letta su Les Années di Annie Ernaux quella frase. In terza pagina e poi di nuovo nel mezzo del racconto. Ed ero convinto che fosse sua, tanto da scriverla in una lettera, a una ragazza…

Era iniziata così quella mattina, la penultima a Parigi. La vendemmia era ormai un qualcosa di nebuloso tra il ricordo e la nostalgia. Poi un febbrone: devo aver chiesto troppo al mio corpo. La paura di aver fatto la solita scelta sbagliata, la gelosia inaspettatamente disattesa, la consapevolezza che il racconto rimane un fedele compagno di viaggio e poi le solite, instancabili, prove d’amore.

Bèrgolo o Bergòlo

Il post Francia avrebbe aperto l’ennesimo capitolo di vuoto e conseguente irrequietezza-agitazione-oddioadessocosafaccio?

L’idea era quella di lavorare fino a Maggio, magari alla fiera del libro di Roma prima e a quello di Torino poi, per poi prendere e trasferirsi in Portogallo per 6 mesi, a scoprire “finalmente” la realtà di un sogno ancora troppo affezionato al racconto.

Da Roma però un inaspettato: “oh che peccato, pensavo tu volessi viaggiare così abbiamo riservato quel posto ad un altra persona… (faccina triste)”. Così niente capitale, niente Porta Portese la domenica mattina e puntarelle un giorno a caso della settimana. Niente concerti dei Jassies, birrini da Celestino, porchette ad Ariccia, amici e amiche che ancora oggi mi divertono e mi abbracciano con quel loro mettere la parola “acchittare” dappertutto.
Se vedemo Roma, pare l’anno prossimo.

E quindi che fare?

Un salto in panetteria. “Vieni quando vuoi!”, il maestro Bertino.
Ok, un lavoro ce l’avrei, ma sono sicuro di volermi svegliare alle 4 tutte le mattine da ottobre a maggio? E poi c’è quella battuta di quel ragazzo giù al forno: “non è che ti piace eh?”, dopo avermi accidentalmente urtato con la pala per infornare il pane. No, non sono queste le persone dalle quali vorrei essere circondato. Forse stai giudicando, forse sì, ma a sto giro conceditelo.

Chiamo Fabrizio, il vice-presidente di un’associazione di scambi internazionali nel cuneese. Ci siamo conosciuti quest’estate durante un call, quando Sofia, la ragazza che mi aveva ospitato ad Atene, aveva messo insieme un po’ di persone per dare vita all’ennesimo progetto culturare.

“Ciao Fabrizio! Sono Jacopo, ti ricordi?”
“Ciao Jacopo, certo. Come stai? Sempre in giro?”
“Sì, ora in Francia, ma fra poco torno. Proprio di questo ti volevo parlare…”

Bèrgolo o Bergòlo è un paesino di neanche un centinaio di abitanti, vicino a Cortemilia. Aiuto cuoco, il mio ruolo: 8 giorni a cucinare per 40 ragazz* provenienti da luoghi sparsi del pianeta.

Coerenza.

L’associazione si chiama Vagamondo, anche se spesso ho sentito parlare di Parco Culturale, altre ancora di New Wellness Education: rimango confuso ma capisco subito che in quel paesino c’è del fermento per quel che riguarda l’ospitalità e la mobilità internazionale.

Sento fiducia. La sento dall’ambiente circostante ma soprattutto la sento provenire da dentro di me. Così riesco a perdermi poco tra quell’instabile sensazione di dover per forza conoscere tutt*, di dover apparire cool e di doverlo fare, prima ancora di volerlo fare. Rimango concentrato sui miei bisogni, o almeno ci provo, e allora:
– sveglia alle 7: corsetta + workout
– colazione, con gli ultimi rimasti, magari in silenzio, in terrazza a guardare le nuvole diradarsi
– pc: cerco un percorso di studi in scienze gastronomiche
– pc: mi prometto di scrivere ogni giorno un pezzettino di un racconto breve
– 10:30/13:30: in cucina
– pranzo: conosco gente e rimango stregato dalle parole, raramente sature di significato. Mi siedo di fronte ad Aya, una ragazza egiziana, e dopo aver fatto i conti col mio imbarazzo le chiedo il perché di quel velo sulla testa. “I’m proud to be muslim”, la sua risposta, e un sorriso di chi forse ha percepito curiosità, prima ancora che pregiudizio. E allora due ore ad ascoltare la sua storia: quella del suo primo Hajj, il pellegrinaggio a La Mecca, i 7 giri intorno alla Kaaba e poi 7 volte tra i monti Safa e Marwa, proprio come la moglie di Abramo.
“La prima volta ho pregato per mio padre, che è mancato pochi anni fa.”, le sue parole nel bel mezzo del racconto. “La preghiera, il rito, il pellegrinaggio. Grazie a questo io sono ancora sua figlia, io sono ancora vicina a lui. E poi sono fortunata, perché posso viaggiare, mettere da parte dei soldi e, a dicembre, portare a La Mecca anche la mia famiglia.” Avevo gli occhi lucidi, e nessun motivo per nasconderli.
Be proud Aya. Be proud.
– 14:30/16:30: pausa, magari ancora pc, magari Annie Ernaux al sole ancora troppo caldo per essere ottobre
– 16:30/19:30: in cucina
– tana libera tutti, io per primo. Giusto il tempo di fare due chiacchiere, magari con Ana, da Cordoba, la quale mi ricorda tanto Carmela, che non sa cosa vuole dalla vita, ma che di certo riconosce il valore della semplicità: “Make it simple.”, le sue parole per predire, più che spiegare cosa si aspetta dal futuro.

In quello stesso paesino poi c’è un orto, o giardino didattico come lo chiama chi ne sa, dove, se si è fortunati, si può incontrare Silvia, da Bergamo, ma anche dal Portogallo, dall’Amazzonia e poi chissà.
“Quando mi parlavano di Silvia mi ero immaginato una persona un po’ più avanti con l’età…”, gran modo di presentarsi Jacopo.
Sorride, forse non sa che dire: “Mi hanno detto che sei appassionato di permacultura.”
“Oh forse, non lo so. Diciamo che mi piacerebbe scoprirlo, solo che non so come, da dove cominciare. E poi mi piacerebbe anche molto tenere legati gli aspetti: unire insieme quella che chiamo l’antropologia del cibo, la produzione e il lavoro della terra, e la cucina e la sua trasformazione.”
Così abbiamo fatto un salto nell’orto. Poi sotto degli alberi che era primo pomeriggio e c’era ancora troppo sole.
“Guarda, da quando ho iniziato a dedicarmi alla permacultura, non ho mai cercato lavoro. Le cose mi sono sempre arrivate.”, Silvia, imitando con le braccia il correre di un fiume, riprendendo quel discorso iniziato in cucina, “un po’ come se si allineassero, no? In connessione tra loro.”

Di nuovo, fiducia.

L’ultima sera, il team aveva programmato un falò, con tutti i ragazz* del progetto. Un modo per chiudere l’esperienza appena conclusasi e dare il via, chissà, per alcuni al festone finale, per altri ad una nuova pagina ancora tutta da scrivere.

“I wanna tell you a story”, dopo aver ricercato il silenzio, Fabrizio, “but first I invite you to close your eyes. Focus on the fire: can you feel the heat? The sound?”
Pausa. Silenzio. Si parte.
“This is the story of the hammingbird. Time ago there was a wood where many animals lived together for decades. There were different spieces, but everything was perfectly in balance. One day a huge fire broke out in the wood. All the animals ran out of the wood fearing for their lives, till the reached the pick of the closest hill. Every one of them thought there was nothing they could do about the fire, except for one little hummingbird. This particular hummingbird decided it would do something. It swooped into the stream and picked
up a few drops of water and went into the forest and put them on the fire. Then it went back to the stream and did it again, and it kept going back, again and again and again. All the other animals watched in disbelief; some tried to discourage the hummingbird with comments like, “Don’t bother, it is too much, you are too little, your wings will burn, your beak is too tiny, it’s only a drop, you can’t put out this fire.”
And as the animals stood around disparaging the little bird’s efforts, the bird noticed how hopeless and forlorn they looked. Then one of the animals shouted out and challenged the hummingbird in a
mocking voice, “What do you think you are doing?” And the hummingbird, without wasting time or losing a beat, looked back and said, “I am doing what I can. I’M DOING WHAT I CAN.”

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