Minga: “lavoro collettivo a fini di utilità sociale e di carattere reciproco”.
Fabio Distante, Casco Bianco in servizio civile
“Come si chiama quello che stiamo facendo?”
Neanche un attimo per pensarci.
“Minga. Gli indigeni sudamericani lo chiamano così. “, mi aveva risposto Silvia dimenticandosi per un attimo della piantina di elicriso. Lei che in amazzonia ci aveva vissuto un anno e che forse quella stessa domanda già se l’era fatta.
E allora inizio a pensare, forse facendolo ad alta voce. Vedi? Noi non ce l’abbiamo una parola per definire tutto questo, per raccontare del ritrovarsi insieme tra amici e conoscenti e darsi una mano, e poi magari farsi una bella mangiata. Minga. Che bellezza. E continuo a farlo, stavolta sicuramente tra me e me. Forse siamo abituati ad avere sempre qualcosa in cambio, a lavorare al fine di ottenerne un vantaggio personale. Ogni volta che vado a fare qualcosa in giro, la solita domanda: “ma ti pagano?”, al punto tale che quasi mi sento in colpa se faccio il volontario. Fino a deragliare. Che poi le parole sono i mattoncini del pensiero, e se manca un termine è perché ne manca il concetto. Allora sì, Minga sfortunatamente, non ci appartiene.
Stavamo lavorando. Anzi piantumando. Eravamo bo, forse una ventina di persone, tra partecipanti al corso e altri e altre venuti lì semplicemente per darci una mano. Tutt* insieme, chi scavando buchi, chi riempendoli con il rigoroso ordine mostratoci da Bruno, perché prima l’humus, poi la piantina, che le si possono anche muovere un po’ le radici, poi i semini ed infine del cippato, questo in abbondanza. Forse una ventina più la musica di Saro, a fare un qualcosa insieme: a fare Minga, avrei scoperto quel pomeriggio.
Senti qua: corso di gestione dell’acqua piovana
“Facciamo un corso la prossima settimana, ti va di venire?”
Erano bastate poche parole a Silvia, seduti sotto degli alberi, che mi vergognavo a chiederle quali fossero, lei esperta di piante e quando dico piante dico tutto, anche ciò che non so non appartenervi, per innestare in me il tarlo della curiosità.
E se fosse la volta giusta?
Una domanda rimbombava dentro di me al pensiero di fermarmi altri 5 giorni a Bergolo. Al solito però, la controparte, quella che mi fa dubitare di qualsiasi opportunità mi si presenti davanti la quale abbia un legame logico e strutturato col reale. La paura che durante quei 4 giorni in un paesino dell’Alta Langa, da un’altra parte, magari a Torino, sicuramente a Torino, succeda qualcosa di imperdibile, che io però, a quel punto, mi perderei. Quel meccanismo perverso di autosabotaggio, tale per cui il limbo di insoddisfazione sembrerebbe ormai essersi fatto rifugio accogliente. E via nello spirale delle incertezze… che non ho voglia adesso di ricascarci dentro.
Erano quindi bastate poche parole a Silvia, ed era sicuramente bastato quel tatuaggio sulla mano di Mattia, anche lui formatore del corso: una goccia d’acqua, piuttosto grande, fatta male come i tatuaggi che piacciono a me, handpoke.
Corso di gestione dell’acqua piovana in permacultura e agroforestazione.
Che poi cosa vuol dire permacultura? E cosa agroforestazione? Tante le domande fatte durante le lezioni, forse troppe le interruzioni…
Un corso di 4 giorni con dei matti come “professori” e dei matti come “alunni”. I primi conosciutisi in Amazzonia: supereroi, Winx, Fantastici4eSilverSurfer. Silvia, esperta di piante e sistemi agroforestali, Mattia, dalle mani agli occhi, sicuramente acqua, Bruno, il marsigliese, terra, Luca, La Cosa, costruzioni, Irene, casa-cura-fuoco. Loro i “prof” che ad avercene non ci penserei due volte a tornare a studiare.
I secondi, variegati a tal punto dall’essere equidistanti nelle reciproche relazioni. Chi artista, chi girovago, chi già esperto, chi aspirante tale, chi più tecnico, chi più volatile, chi volto familiare, chi linguaggio degli abbracci, chi silenzio di giorno e party di notte, chi di passaggio, chi bell* come il sole, anzi tutt* bell* come il sole.
4 giorni a parlare di un tratto di collina reso incapace di assorbire acqua e di un teatro alla sua base capacissimo, invece, di allagarsi. E allora osservzione, studio, progettazione. Swales (o fosse livellari): tre canaloni, mi raccomando sulle curve di livello!, con un solco iniziale per contenere il flusso, e alberi e piante aromatiche prima e dopo, perché poi la natura ci pensa da sé.
“Perché sento il bisogno di iniziare a costruire.”
Anche se ho avuto paura a dirlo.
Anche se ho ancora paura nel riconoscerlo.
“Sì, Silvia, mi andava proprio di venire!”