“Which was your feeling, your sensation, the first time you came back here in Olde Vechte?”
Un po’ di tempo per pensare.
Non troppo. Giusto quello per far sì che i nostri occhi si incrociassero prima di perdersi da qualche parte, nell’orizzonte.
“Safety. I felt safe.”, abbozzò con un sorriso Santa, generando in me un sussulto di gelosia: gliel’avrei voluta rubare quella parola.
Mai mi ero sentito così al sicuro come là, ad Olde Vechte, tra quella gente che, a distanza di anni e di chilometri, era ancora la mia gente. Tra quegli ascolti, quelle domande, quei silenzi, quelle cicogne che improvvisamente spiccavano il volo dal bordo del fiume.
“Safety” era la parola che mi mancava. Perché la medesima domanda l’avevo posta anche a me stesso, dopo essere passato di fronte a River House, la casa di fronte al fiume dove vissi per circa 7 mesi, rispondendo alle sensazioni del corpo con vaghe definizioni di calma e di silenzio e con immagini ben impresse nella mia memoria di quando tornavo i weekend dopo i miei soliti giri ad Amsterdam, e senza far rumore appoggiavo i piedi freddi sul pavimento riscaldato mentre delle luci basse diffondevano tepore all’ambiente.
Era stata questa la mia risposta, ma quando sentii Santa pronunciare quelle parole, capii che quelle sensazioni e quei ricordi potevano essere racchiuse tutte in un unico contenitore: “Safety. I felt safe.”
Here in Olde Vechte I feel safe.
Incasinato
Non ci ho pensato a lungo, insomma diciamo meno del solito, quando Joanna mi ha offerto di venire a fare il cuoco per uno dei suoi progetti in Olanda.
Non ci ho pensato a lungo perché quel viaggio sarebbe stato in qualche modo un “tornare a casa”.
Ho salutato l’Olanda per l’ultima volta nell’aprile 2022: ancora me la ricordo la telefonata con quel pazzo di Rotella. Vivevo in un bosco, io e Joanna e una manciata di gatti, in un bungalow in mezzo agli alberi. Vivevo lì quando me ne sono andato, ma prima, nell’anno e mezzo precedente, mi ero concesso ancora il privilegio di cambiare un paio di case: Small House, River House… nomi vuoti se letti così, sulle pagine di questo blog.
Adesso, mentre scrivo, sono diretto con mente e corpo, nuovamente in quei luoghi. Vado per lavorare, certo, e sarà un lavoro tanto duro quanto inteso, ma già lo so che i miei occhi non potranno fare a meno di ricercare indizi di quel passato che, forse, vado anche un po’ rincorrendo.
L’accento così duro, i cartelli stradali dal font inconfondibile, le distese di verde, grigio e foschia che si dilungano dall’altra parte dell’orizzonte. Me l’aspettavo così, e così la sto ritrovando.
L’Olanda.
The Netherlands.
Per un periodo, Casa.
Prima di partire sono già stanco. I giorni sono lunghi e pieni e il mio corpo ancora si deve abituare a questi ritmi. Il mattino sono a scuola, il pomeriggio pure e la sera attacco a lavoro in un ristorante. Corro a casa, rubo una manciata di ore di sonno alla notte e poi di fretta mi rimetto in macchina, direzione aeroporto. È ancora notte quando, nell’attesa che aprano il gate, faccio la mia prima colazione. In un attimo mi ritrovo a Schipol, l’aeroporto di Amsterdam: la strada la so, so tutto. Treno fino a Zwolle, cambio al binario 16 per Emmen, scendo ad Ommen e poi a piedi per una quindicina di minuti.
Scendo dal treno e subito, senza davvero guardare in quella direzione, la vedo. Faccio una foto al cartello della stazione e, quasi imbarazzato, mi dirigo verso di lei. Carmela stava accompagnando la sua famiglia in aeroporto, e avrebbe quindi preso il treno per Zwolle delle 10:53.
“Arleady?”, io da lontano, senza sapere cos’altro dire.
Lei sorrise, liberando le mani dal calore delle tasche per invitarmi in un abbraccio.
Siamo stati così, immobili per una manciata di secondi, forse a scrutare se i nostri respiri si muovessero ancora allo stesso ritmo.
Impossibile. Ma senza giudizio ci siamo separati, per raccontarci con un po’ di ruggine le solite due cazzate di una storia troppo lunga da sviscerare.
Poi il treno, i saluti e le presentazioni con la sua famiglia, “see you in the next days”, e io, già in ritardo, verso Olde Vechte.
Fare la spesa per 20 persone, 4 giorni, 20 pasti, è stata durissima, specie quando la mancanza di esperienza ti fa acquistare in quantità nettamente superiore al dovuto.
Ah, non l’ho detto: in Olanda c’ero finito per fare il cuoco durante un training di Business Constellation.
Era la prima volta che lo facevo: ero stato, sì, aiuto-cuoco durante altri progetti, ma mai ero stato l’unico cuoco responsabile dell’attività. Scelsi quindi il menù, i valori attraverso i quali svilupparlo, le portate, la spesa… insomma le chiavi della cucina erano in mano mia.
“Sarai da solo.”, mi aveva detto Joanna quando parlammo di quest’opportunità. Non esitai, e accettai. Senza sapere realmente cosa stessi facendo.
Fortunatamente, invece, ad aspettarmi c’era Athena, una ragazza greca messami a disposizione da Marko, il responsabile della struttura, nonché ex mentore durante il mio soggiorno in Olanda. Il perché di tale sorpresa? “Perché gli piaci”, mi avrebbe confessato sempre Joanna. (e quindi grazie babbo e mamma per avermi fatto educato.)
Due ore abbondanti di chili e chili di spesa e poi via con le preparazioni per il giorno dopo: c’è l’hummus da fare, le uova da bollire, da acchittare la cucina, l’angolo per il caffè, il the, i sacchi dell’immondizia…
I quattro giorni in cucina ci mettono veramente poco ad essere raccontati: duri.
Il primo, da solo, pensavo che mai e poi mai ce l’avrei fatta: quell’ammontare di pentole da lavare, mentre subito c’era un coffee break da preparare e un pranzo che da lì a poco avrebbe incalzato. Impossibile da solo. Impossibile per me che iniziavo a generare i mostri del fallimento e della pressione.
“One by one Jacopo”, continuavo a ripetermi, e così la sfangai. Servendo una vellutata di zucca con delle quiche a pranzo, e una lasagna e del coleslaw per cena.
Il secondo giorno la figura di Athena aveva contribuito ad alleggerire notevolmente il carico di lavoro. Fattosi sempre più piacevole con l’arrivo di Giulia il terzo e il quarto giorno.
Io intanto non riuscivo a smettere di pensare a tutto quello che c’era fuori: il bosco, che non vedevo l’ora di tornare a visitare, il bungalow, Afrodite, Carmela, Ghiom, Bianca, Amsterdam… dove mai avrei trovato il tempo per ripercorrere almeno un po’ il cammino che la memoria continuava ad indicare?
Così una sera con Joanna al pub, a bere straordinarie birre belghe (finalmente), e a raccontarci di quanto via sia attrito, imbarazzo, tensione tra noi. Qualche lacrima, ancora due bicchieri di whiskey, e tutto sembrava essersi risolto.
La sera dopo al compleanno di Carmela. Io seduto immobile su una sedia troppo comoda per essere abbandonata e vicino a me prima Afrodite e poi Carmela. Parole. Fiumi di parole e racconti che sembravano essere riusciti ad annullare il tempo. Tanto ne era passato dai giorni in cui vivevamo insieme e tornavamo tutti zozzi ognuno dalle proprie fattorie, non vedendo l’ora di buttarsi sul divano con una zuppa calda in mano a raccontarsi delle nostre giornate. Tanto, sì. Ma non abbastanza da renderci sconosciuti gli uni agli altri.
E poi il training in Business Constellation finisce anche, e io sono stanco, sono cotto, sono distrutto, ma Joanna mi aspetta: dobbiamo parlare. Tra noi qualcosa si è rotto: “we don’t deserve”, sosteniamo entrambi, sentendoci un elemento di disturbo per l’altro. La notte ci scivola via dalle mani e dopo aver riconosciuto che sì, c’è della tensione, ci abbracciamo forte certi che qualcosa di più profondo è ancora lì a tenerci stretti.
Io ci provo, tutti i giorni, tutte le mattine, a scrivere di quest’Olanda. Ci provo, ma non ci riesco. Mi vengono fuori solo racconti frammentati. Le parole si nascondono. I pensieri sovrastano lo scorrere fluido della penna sul foglio. Troppo da dire. Pochi gli strumenti per farlo. Stasera in treno mi metterò a scrivere, mi dico per placare i sensi di colpa. Saluto chi so che non avrei più rivisto, e mi dirigo nel bosco.