“Is it your playlist? Or it’s a random one made by Spotify?”
“No, no, it’s mine.”, nascondendo un velo di imbarazzo tra la ripetitività del conflittuale gesto del taglio di pomodori, il 30 dicembre, a Torino. “Do you like it?”
“I do!”, nonostante anche egli, Morti, un ragazzo con il quale condivido i turni in cucina al ristorante, sembrava doversi sforzare nel fare del precario equilibrio diaframma/corde vocali/cavità orale uno strumento di emissione di parole.
Era musica priva di testi quella. Solo strumenti e suoni figli della maestria nel coccolare, violentare, suscitare speranze e rimorsi, di talentuosi suonatori. Era musica che mi rispediva indietro a qualche remota pedalata invernale, avanti in paradigmi non ancora sviscerati… musica che mi teneva lì, con le mani sul tagliere e una serie di verdure attorno, a svolgere quasi rassegnatamente la mia intrinseca mansione di cadetto di Guascogna.
“I do!”, perché l’inglese ci viene in aiuto e alle volte bastano davvero tre lettere per dire tutto l’indicibile con le altre 20epassa dell’alfabeto.
Ci aspettava l’ennesimo pranzo in servizio di queste corte, cortissime, vacanze di Natale e il sabato poi aveva un sapore ancora più agrodolce: condito con le note forti dell’ingiustizia su un letto morbido e accogliente di malinconia.
“I do!”, aveva risposto Morti, quando ormai aveva già messo le mani sulla plonge. Lontano dagli incroci delle frasi altrui, al riparo da pensieri ancora troppo acerbi per poter essere colti e assaporati.
La musica suonava, ancora e ancora, mentre la carne sulla piastra sembrava applaudire col suo scroscio di grasso brulicante.
Poi lo sguardo che, improvvisamente, si ferma sulla manciata di pomodorini ancora da tagliare. E come un filo, mi sono sentito tirare da dietro.
Mi giro, e con le ultime parole rimaste, suggello: “I’m tired of words.”
Più incazzato che turbato
Fatico a tirar giù due righe.
Sono stanco di pensiero ancor prima di mettermi seduto a scrivere.
Il Natale. Vorrei raccontare il Natale, di quanto mi sia sentito libero di poter mangiare e ingrassare, e mangiare ancora, libero senza risentimento alcuno. Che neanche lo cercavo quell’ospite tra le sedie tutte diverse disposte attorno al tavolo imbandito con segnaposti e centrotavola. Non lo cercavo e ne rimasi colpito quando quell’assenza rispondeva a un’azione scellerata e contraria: non l’avevo invitato.
No. Non l’avevo invitato quell’ospite che sempre, con i suoi sguardi giudicanti, sa come tenermi ritto e teso come i piombini con la lenza giù a mare. Questo Natale no, e io manco lo sapevo. Non mi sembrava infatti di aver scritto alcuna lettera di non-invito. Nessun messaggio o telefonata per non-darsi appuntamento alla tavola dei miei genitori. Forse devo averlo non-invitato in sogno, tra Lorenza che dice di non fidarmi del silenzio di Pera e mia nonna che mi bussa alla finestra della mia cameretta al pian terreno dicendomi che si sente morire. E io che faccio? Cosa posso fare se non rimanerci nel sogno, e buttarmi sul marciapiede per abbracciarla.
“Nonna scusa. Perdonami tu e chiunque decida le sorti di questo gioco. Se quell’ospite non è seduto alla nostra tavola, non vuol dire che non esista.”
Così mi sveglio turbato. Anzi più incazzato che turbato. Con due turni di lavoro davanti e altri quattro consecutivi alle spalle. E l’incazzatura cresce, così come l’ombra di quell’ospite assente.
“Non scrivi più.”, dice.
“Non fai più sport.”, dice.
“E lo studio?”, incalza.
Proprio oggi, come ieri, o doman l’altro, che a Torino ci sono rimasto solo io. Perché chi a Los Angeles, chi a Dublino, chi a Berlino, chi a Londra, chi qua dietro, in montagna da qualche parte… Una legge del contrappasso scaltra e suadente, che agita le proprie vesti velate, giocando con lo sguardo che sa di volersi spingere oltre, a toccare, ganar come bestia famelica, le carni di quel corpo martoriato da mille paragoni.
A Natale ho mangiato.
Intorno lavoro.
Scrivo, ora che so di avere i minuti contati prima che il rumore assordante della serranda del negozio mi ricordi perché sono qui.
“Perchè?”
…
Sbagliavo.
Me lo domanda senza che al ricordo appartenga alcuna risposta.
Ma non importa.
Io volevo solo raccontare del Natale e di quanto ho pianto nell’aprire i regali dei miei genitori.
Firmato
Io. Jacopo.
P.S.
Oggi andrò a correre, sperando di trovare la chiave per aprire le ganasce della rabbia contro l’inquinamento.