“Tu non sei un albero! Non sei un albero!“, mi ripeteva il prete del barrio dove vivevo. Cazzo, non sono un albero. Se non mi piace me ne vado. Ho sempre fatto così: sono sempre “stato” e me ne sono sempre andato. Adesso, però, mi sento solo. Forse sarei dovuto restare una volta in più… ma io non sono un albero.”
E si interrompeva Cristian in quel suo raccontarsi trattenuto. Lo sapeva anche lui che aveva bisogno di un tavolo, di una birra, delle parole che gli facessero da ponte tra quel suo grigio stato d’animo e un orecchio pronto ad ascoltare. Cristian lo sapeva, ma non voleva, o forse, non poteva…
Ed era stanco di cambiare, stanco di non essere un albero. Quel prete aveva ragione: Cristian era un uomo, un uomo senza radici.
Manco fosse domenica mattina
Sono sotto le solite coperte di un letto non mio.
“Come fa a piegare così tanto la caviglia?”, mi domando mentre osservo quell’angolo così innaturale nascondersi all’ombra della sedia.
Studia con la schiena china sulla scrivania in legno imbarcata da chissà quanti sogni di studenti e studentesse passate da questa stanza. Nelle orecchie musica Lo-Fi, “perché ovatta”, mi aveva detto una sera attraversando corso Regina Margherita. Se sforzo ancora un po’ lo sguardo riesco ad intravedere lo screensaver del suo portatile.
Tutto sa di passato in questa camera: la scrivania imbarcata, la parola “screensaver”, le porte bianche in legno sottile, i pavimenti piastrellati ad alveare, io che scrivo sotto le coperte, bianche anch’esse, manco fosse domenica mattina, manco fossi a Monteverde.
Delle piante, tre, stabiliscono i confini della parete a me di fronte: finalmente non c’è il rischio che mi perda altrove. Il mio sguardo può solamente approfondire. Da una parte la finestra, e lì sì che mi ci potrei buttare a capofitto, raccontando del mercato di Porta Palazzo che sta ormai per tramontare, o di quel palazzo di fronte tanto curato, tanto gentile, da poter essere un palazzo qualsiasi di una qualsiasi località di mare. Da una parte la finestra, sì, e dall’altra A., che coi nomi voglio andarci cauto, e poi e un artificio di retorica quello di creare suspense attraverso il non detto, no?
Questa piccola porzione di parete, racchiusa dalle piante in numero di tre, gioca con maestria alla violenza degli opposti: gli spazi sono divisi equamente e prospetticamente distanti.
Come faccio a descrivere ciò che vedo senza ricorrere all’astratto?
La luce, la finestra, il vuoto, la trasparenza che mi spinge oltre, a mettere la testa fuori a mischiare la mia con quella di altre centinaia di vite.
L’immobilismo, il muro, la scrivania che mi viene incontro e A. che ne prolunga la tensione.
Due movimenti opposti.
Due espedienti narrativi, fino ad ora innocenti, per me che manco fosse domenica mattina, manco fossi a Monteverde, me ne sto sotto le coperte bianche, banalmente a scriverle.
Forse ho già scelto.