“Senza di te non ce l’avrei fatta!”
Una frase rubata ad una festa, sotto la pioggia e sopra la pioggia ormai spenta in profonde pozzanghere ormai amiche.
L’ho scorta, più che sentita, mentre Alessandro avvicinava la bocca all’orecchio di lei per dirle ciò che durante quelle ore, giorni, settimane, forse non era riuscito a farle intendere.
La musica scandiva con violenza i nostri passi, sfiancati ed entusiasti, mentre la sua presenza, in disparte, osservava: incallita deformazione professionale.
Intanto un ballo: i salti che si incespicano sui fianchi dei vicini, anche loro sfiancati ed entusiasti a tal punto da essersi già tolti di dosso il paradigma del controllo. Ancora un ballo e le urla a risuonare le interiora: il movimento è viscerale e alle viscere fa ritorno.
“Senza di te non ce l’avrei fatta!”, mentre noi tutti muovevamo i nostri corpi tra il ricordo, uno solo, nitido, di un particolare degli ultimi 5 giorni, e la proiezione futura al prossimo Campari.
Oscillando tra le dimensioni, un qui e ora si stava materializzando.
“Senza di te non ce l’avrei fatta!”.
Poi un abbraccio, prima che il vortice avrebbe fagocitato anche loro.
Alessandro e Alessandra.
Nodi un po’ più stretti
Mi ci devo mettere di impegno per ritagliarmi questo tempo di memorie e di scrittura. Sarebbe dovuto esistere già una settimana, poi tre, poi due, poi un giorno fa… e invece, invece una serie di sì pronunciati in maniera distorta e poco rassicurante.
È iniziato il Salone del Libro 2024.
È finito il Salone del Libro 2024.
In mezzo, nello spazio di una riga, 10 giorni di “vacanza”. Una fuoriuscita di scena da tutte quelle strutture che pensavo di essermi costruito, ma che in realtà mi stavano intrappolando.
Non vado più a lezione, non vado più a lavoro al ristorante. Mi dimentico di spese e le sessioni di workout. Rimando lavatrici e la scrittura di questi articoli. Bevo birrini praticamente tutti i giorni, rincorro ore di sonno senza la fisima del loro possesso. Rinasco distratto ed efficiente. Rinasco stanco ma forse più felice.
Vita immaginaria, il titolo di questa mia terza edizione del Salone. E chi se la sarebbe mai immaginata una vita così? Fatta di incastri e di impegni a lungo termine.
Così, sfrutto l’occasione, e me ne immagino una ancora nuova, l’ennesima. Il Salone del Libro mi offre l’opportunità di depennare e riscrivere sopra, e così faccio.
Il team di lavoro è di quelli ormai rodati. I nodi che si intersecano tra le persone sedute in ufficio si fanno sempre più stretti, e magari anche un po’ più radi: l’inversamente proporzionale detta legge sull’inconfessionabile dicotomia qualità/quantità.
I primi giorni rispondono di una sospettosa lentezza, controbilanciata da una necessaria evasione quando i computer si chiudono e ci si dedica al sociale.
“Ho fatto pipì in due come fanno le ragazze!”, avrebbe urlato un giovane ragazzino di ritorno a casa dalla mamma, mentre lo attendeva nervosa e impaziente sul balcone che si affaccia sulla strada.
La storia si ripete, quando al mattino la faccia gonfia e gli occhi pesanti rivelano un ingannevole pentimento: acqua e caffè, e l’insostenibile leggerezza della performance.
La To Do List si gonfia e si svuota come il mare quando sopraggiunge la marea.
A ciascuno la propria, di marea.
La mia si riempie di tensione mentre sfiata una sconosciuta gratitudine: “devo dimostrare”, rintano nel pensiero, “sono contento per loro”, condivido con Salvini.
Il flipper di una routine nuova e incandescente fa sì che tutti sbattano contro le parenti rimbalzanti, che tutti peschino il cartellino BAR e che caschino inesorabilmente tra i braccetti troppo corti per un salvataggio in extremis. La molla intanto avrà già risputato la pallina: altro giro altra corsa, ed è quasi già il quinto giorno.
Rallentano le cene e aumentano gli aperitivi. La tensione lascia il menù fisso, trasformandosi in contorno, pronto a sfamare gli ultimi languorini.
Io commetto un errore: mi mortifico e mi colpevolizzo. Ma il team di lavoro è di quelli ormai rodati e i nodi, quelli più stretti, servono proprio a questo: a tenere insieme i pezzi.
Il prosecco sulla Pista500 arriva che sembra di non averlo poi sudato abbastanza. Ma ciccia, abbassiamo il volume delle radio, e sfidiamo la sorte provando a goderne il retrolfatto agrumato.
Per sbaglio finisco tra gli stand del Salone: c’è vita dopo l’auditorium.
“Il lascito di Freud sulla malinconia ci riporta ad un piacevole ricordo, e alla nostra incapacità di lasciarlo andare”.
Il deejay sfuma l’entusiasmo con la malinconia, e un libro violenta il mio respiro urlandomi negli occhi che tutto questo sarebbe presto finito.
Ancora una pennichella nell’area di quiete. L’ennesimo vino naturale e un pensiero a quella ragazza proveniente da Lisbona.
“È tutto così iper… ipersprecato, ipercommercializzato, iperprodotto…. “
“E tu? Come ti fa sentire questo sguardo dall’interno?”
“… spaventata.”
La guardo, e sorrido. Non ha detto “male”, non ha detto “bene”, non ha detto “non lo so”.
Poi la festa. Quella ufficiale. Buona per dimenticarsi del caleidoscopico giro di giostra che è il Salone.
“Si sta svegli finché non muore la speranza, maledetta stronza.”, ma poi il sonno prende il sopravvento e ci si dimentica di essere rimasti fino alle 5 del mattino a parlare di chissà poi che cosa.
Noi, nodi un po’ più stretti.
Che da domani si ritorna a quella vita fatta di incastri, scadenze e impegni presi a lungo termine.
Spero di aver perso il controllo.
Quest’ennesima vita immaginaria è molto più bella, molto più stancante, molto più piena.