“I love your way of speaking! It’s easy for me to get your words.”, mi aveva sorpreso Mory alle spalle mentre tagliavo ipnoticamente una cassa di picadilly.
“What? What do you mean?”, io, solo dopo aver inquadrato la scena.
“Yeah, I mean, it seems that you really care about communication. You don’t pick words randomly. And also the sound, it sounds easy to my ears.”
E che gli potevo rispondere a Mory?
Come potevo confessargli quanto fossi affezionato alla parola?
Non dissi niente: un po’ imbarazzato, un po’ orgoglioso. Quasi come se quel silenzio fosse la parola più giusta in quel momento.
Non è tutto buio
È tornato La Julienne. Una visita di due giorni prima di rimettersi in viaggio: questa volta a decine di migliaia di chilometri di distanza.
Prima ancora che ci rivedessimo già gli avevo detto di quanto mi sembrasse strano, e con strano forse intendevo che mi spaventasse, il fatto che saremmo stati così lontani, così a lungo.
Poi ha ordinato una pita vegetariana e il vederlo seduto nel dehor dalla finestrella della cucina mi ha scaraventato nel presente: lui c’è, io ci sono, il resto… è solo il resto.
Superata la barriera della vetrina del ristorante, io sembravo Mister e lui la Lucy. Mister, il mio cane, diffidente, cauto, solitario. Lucy, il suo, estroverso, coccolone, frizzante.
Quando mi vede si alza dal tavolo, mi abbraccia, poi mi guarda e mi riabbraccia: io dal basso dei miei centimetri ricambio, contento di surfare quell’onda di felicità.
Poi il mercato, la cena dai miei, una notte in Vanchiglia a bere whiskey sour io, nulla lui e Chartreuse gli altri. Maurino, Claudietto e Gianluca, ecco gli altri: una rappresentanza regionale di accenti e aneddoti così disparati da sembrare trama nel patchwork dei nostri tessuti.
Una panzanella a sostituire il più classico dei pastini post serata e “ma quanto cazzo sono marroni sti cani?”, avrebbe sparato Claudietto su tutti noi intenti a sbranare lo sbranabile, mentre Bullo e Ura ci guardavano speranzosi di essere nostri amici.
La notte si sarebbe mangiata il mattino e la domenica esige solamente svacco e cibo: pastino pesto, quello buono strappato in fotofinish dal palato di Looka, e fagiolini, arepasconqueso, abilmente vendutomi da un commerciante di Porta Palazzo, formaggi, vini, verdurine e ancora vini.
Un salto al Parco Dora, che la Mole Antonelliana la puoi vedere anche dietro i 2 centesimi e i saluti finali sanciti dal più classico dei “sentimose”.
Per cena signora pigrizia aveva deciso di sedersi al nostro tavolo, così prenoto dai miei che per loro qualche coperto significa un buon pretesto per un abbraccio. Di ritorno in metropolitana avrei potuto dormire o piangere, e se Torino fosse stata grande come Roma forse avrei fatto entrambe.
Col buio il ticchettio del tempo che passa si fa sempre più intenso e io e La Julienne non ci eravamo ancora messi a sedere.
mettersi a sedere v. intr. [dal tosc. decl. in forma riflessiva] – fermare il tempo e lo spazio per dedicarsi all’altro
Dal Vocabolario secondo Lag
“E allora?”, avrebbe quindi domandato il più coraggioso dei due.
“Allora che?”, avrebbe così risposto il “più” naive.
Una candela, un bicchiere di whiskey, una domanda: come stai?
E via con la solita fiumana di parole che ora che le scrivo già mi mancano. La Julienne sapeva ascoltare e sapeva ascoltarsi e questo era quello che più amavo di lui: sì perché sapeva farlo senza giudicare, e quando manca quel filtro di incasellamento e comprensione ecco che è come se il dialogo (da di – “separato”, logos – “discorso”) diventasse uno, diventasse monologo, tra te e te stesso: tra te e lo specchio.
E mentre gli vomitavo addosso le difficoltà degli ultimi mesi: la città, la solitudine, il rifiuto, l’ego… mentre facevo un resoconto fallato dall’incomprensione… tra tutte quelle parole ero riuscito a infilare il cibo: ossia il mezzo attraverso il quale mi connetto col mondo.
“Un giorno mentre ero a lavoro a tagliare la Feta, assolutamente sovrappensiero: sai quei momenti dove sei quasi ipnotizzato dalla ritualità dei gesti. In quel momento mi sono voltato verso Mory e gli ho detto: “Man, I know what is happiness for me!”, poi una pausa e il tempo di realizzare che mi stavo dando il permesso di stare bene, che mi stavo condannando ad un’alternativa.
Mi fermo.
Proseguo: “It’s gathering with my friends around a table.”., avrei così osato raccontargli, felice di quella scoperta.
E Lag, sdraiato a letto, che se avesse avuto 100 occhi e 200 orecchie le avrebbe dedicate tutte a quel momento, che se avesse avuto 100 cuori avrebbero battuto tutti al medesimo ritmo, Lag lo sentiva che in mezzo a quel fare esperienza della vita c’era del buono: “Banalmente me ne sono accorto quando in macchina ti sei ricordato del mais.”, avrebbe risposto, “Io pensavo a tutt’altro: guardavo la città, la gente. Ma quant’è bella la gente? Ma poi, quanti siamo? Comunque in quel momento, quando tu hai detto del mais, ho sorriso… Non è tutto buio Lam. Non è tutto buio.”