BACK IN PAIN

da | Lug 15, 2024 | Luglio 2024

“Tu vuoi vivere una storia da protagonista.
Questa vita è noiosa: scuola, lavoro… non è appassionante.
Cazzo, in Olanda vivevi con 30 persone: sempre stimoli, sempre racconti…
quella era una storia interessante, e tu sì che eri un personaggio interessante.”, e si gira, dandomi il profilo mentre fuma una sigaretta col silenzio dell’eroe.

Non sapevo che il mio balcone potesse trasformarsi in una ferita.
Come non sapevo che Fil potesse essere così coraggioso da infierirmela.

Io sudo. Sudo e ascolto, mentre ripenso a quelle stesse parole urlatemi nel petto da Dumi quasi tre anni prima: “vivi la tua vita solo per poterla raccontare”.

Cazzo.
Ci risiamo.
Ma sta volta non è neanche una bella storia.

Ci sono dei gesti che, se messi insieme, mi rendono la vita più bella.

È proprio come fosse un pacchetto, una mistery box che via a via sto imparando a conoscere.

“E smetti di posizionare i tuoi sogni così in alto!”, mi urlava un tizio seduto su un prato mentre accarezzava il suo cane.
Non lo sapevo, ma evidentemente già l’avevo fatto: e fu proprio grazie al regredire del sogno da missione esistenziale a semplice suggestione che ero riuscito a realizzarlo.

Così, nel mezzo tra un ridimensionamento e uno spacchettamento, eccomi con quello che io chiamo van: un’auto camperizzata.

Finisco il turno del pranzo per le 15:30.
Il piano è: vado a casa dei miei genitori, mi faccio una doccia, monto il van, mi vedo con Afrodite e partiamo per il Monte Chaberton.
Lei con Spriuuu, il suo van ed io con… bo, ancora non ha un nome.
Tutto fila, tranne un fisiologico ritardo di una mezz’oretta dovuto all’incapacità di calcolo nella programmazione.
“How long we’re gonna drive?”, preoccupata Afrodait, tra un abbraccio e la partenza.
“Oh, an hour and half… a bit more maybe.”, e il sollievo sul suo viso aveva sollevato anche me.
Tre ore dopo eravamo ancora ciascuno nel proprio van: una sosta per il cibo, una per l’acqua e ancora il giusto tempo per cercare un posto dove parcheggiarsi per la notte. Una serie di inversioni a u si alternavano a rotonde perlustrate in lungo e in largo: chi sceglie il van è piuttosto pretenzioso. Il rifiuto categorico di aree di sosta, cemento e persone, impone una ricerca dettagliata di tutte le stradine meno battute: lavoro questo che si paga con la solita moneta del tempo.

La segnalazione di un rifugio ci apre la strada verso il versante più isolato della montagna; qualche difficoltà nel guadare una serie di torrenti ma poi non v’erano più dubbi: avevamo trovato lo spiazzo giusto. Un piccolo prato in mezzo a un bosco, col verde tutto intorno e il Monte Chaberton appiccato in faccia, come il poster del proprio idolo nella cameretta di un bambino.

Di quella mistery box dei gesti che mi rendono la vita più bella c’è sicuramente il sedersi sulla mia sedia da campeggio preferita (ricordo del babbo e della mamma con un velo di sangue hippie) a fondo van, col cofano aperto e l’abbozzo di cucina pronto per una cara e vecchia moka.
Una sedia, la natura e la cura nel tempo di un caffè. La semplicità del non aver nient’altro da fare che rende il qualcosa reale.

Un istante, calcolato col tempo della montagna, e si era fatta già ora di cena: il cielo prometteva la notte e nessuna lampada avrebbe osato combatterla. Così pasta e fagioli, e formaggi per ricordarci dove eravamo. La diapositiva successiva eravamo noi seduti con le gambe incrociate e gli occhi di Afrodait riempiti di una sofferenza così piena d’amore.
Poi un abbraccio.
Poi la notte.

Per stare bene bisogna allinearsi. E lo stesso accade col van. Allinearsi col tempo: l’oscurità è fatta per riposarsi, la luce per stare svegli. Alle 5:30 del mattino avevo già aperto gli occhi: ero stanco, avrei voluto dormire almeno 3 ore in più, sentire il rumore della pioggia, leggere, fiutare il richiamo dell’odore del caffè… niente. Quel versante più isolato della montagna stava ignorando i miei capricci e, dopo avermi scalciato fuori dal letto aveva riconosciuto lo sforzo ricompensandomi col passaggio di un capriolo.

Lo Chaberton non ci avrebbe né aspettato né sarebbe fuggito.
Quell’ammasso di pietre si faceva semplicemente guardare mentre le gambe stanche arrancavano già dai primi metri di salita.
Gli zaini stracolmi di inesperienza pesavano sulla nostra fragilità mentale: è così subdolamente soddisfacente soffrire lamentandosi.
Alle marmotte non gliene fotteva un cazzo delle nostre perversioni, e mentre io iniziavo a trasformarmi nel cane al quale, appena entrato nel recinto, viene donata la libertà dello sguinzagliamento, Afrodite non sapeva più se odiare o amare tutto quel verde.

La presunzione di saperne più delle guide alpine ci ha fatto perdere il sentiero praticamente subito, catapultandoci in un mondo fiabesco, fatto di mille tonalità di verde e morbidi rilievi. Io e Afrodait eravamo ormai due cose presenti e distinte, appartenenti più soltanto a ciò che si cela alle sovrastrutture: niente più dimostrare di essere forti e resistenti, niente più socialità spinta, niente… se non la distanza che ormai separava i nostri corpi.

Il passo s’era fatto ormai ritmo e solo la punta di una montagna avrebbe potuto interrompere quella sinfonia. Avevo ormai puntato la cresta di una cima che dava il via a diversi pendii, e mentre Afrodait probabilmente si chiedeva se fosse il caso di raggiungermi, ritrovai nello Chaberton, che ormai sembrava ridere di noi, quel gusto del fallimento. Mi sedetti su una delle tante rocce lì, forse non per caso, e con la mano infreddolita gli scrissi due parole:

“Caro Chaberton,
ancora non so bene chi tu sia: immagino il gigante di fronte a me.
Volevo venirti a trovare oggi, ma le gambe dure, la strada sbagliata e un equipaggiamento improvvisato hanno contribuito alla mia dipartita.
Ti scrivo seduto su una roccia in cima al monte di fronte. Fa freschino e ogni tanto mi piace osservarti, almeno fin dove posso, visto che ancora mi tieni nascosto il capo sotto un velo di nuvole. Rimango comunque dell’idea di venirti a trovare, sembri così bello e così duro. Per ora quindi ti saluto da lontano, dal monte di fronte.

alle volte sbagliare strada fa vedere ancora meglio la propria direzione”

alla prossima,
Jacopo

Il tempo di rialzare lo sguardo e Afrodait mi aveva raggiunto: una foto, un panino e la semplicità del non aggiungere nient’altro.
“Wanna go on?”, lei già consapevole della risposta.
Mi volto.
C’erano altre 3 cime collegate da una cresta di pura freschezza.
“Is it ok for you if…”

Come un cane al quale, appena entrato nel recinto, viene donata la libertà dello sguinzagliamento.

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