– “Monsieur, would you like anything else?”
– “Why not? Something sparkling maybe.”
– “Bien sure, white?
– “Rosè? Vous avec rosè?”
A questa affannosa conversazione seguirono parole impronunciabili in francese tra il cameriere biondo capellone, proprietario del locale e un suo amico nascosto dietro il bancone della cucina.
– “We don’t have rosè, red?”
– “Oh white, it’s ok. Thank you.”
Il ragazzo stava aspettando un suo amico quando ero stato tagliato fuori dalle sue distrazioni dal poliedrico cameriere francese.
Era convinto di non volere un secondo bicchiere, ma come spesso accade, le intenzioni sono facilmente manipolabili, specie quando riguardano i piaceri più effimeri.
Un bianco frizzante, rigorosamente naturale, era dunque piombato sul tavolino parcheggiato a lato del 177 di Rue St. Denis, a Parigi.
Stava per concludersi il secondo giorno in esplorazione solitaria della capitale francese: il circostante si faceva progressivamente sempre più ristretto e la scelta era ormai assai limitata all’accessibilità dei luoghi.
“Non lo volevo questo bianco”, continuava a ripetersi, nonostante fosse ben a conoscenza delle dinamiche che rendono il tempo una porta senza chiave. Rimuginava allora, mentre alzando lo sguardo si chiedeva quanto sarebbe stato inutile innamorarsi in quel momento. D’un tratto un ricordo: l’incrocio di sguardi con un ragazzo visto il giorno prima lungo la via di casa.
“E se ripercorressi la stessa strada?”, pensieri futili, visto il suo impegno a rimanere fedele all’amico e al bagaglio di non-detto che entrambi si portavano appresso.
Che fare quindi?
Il mal voluto bianco non esitava ad attirare attenzioni, mentre un notevole appetito iniziava a farsi spazio tra le parole avidamente cercate del racconto.
Un inaspettato invito al bar Les Fontaines aveva reso ancor più tumultuoso quel fondo di calice: “Sua sorella? È tutto il giorno che giro da solo per Parigi, e ora che fa? Mi invita in un bar con sua sorella?”. L’ego iniziava a fomentarsi mentre l’urgenza di una decisione batteva l’indice sull’orologio.
Val bene una messa
Per sbaglio sono stato a Parigi.
Una Parigi post elezioni e pre Olimpiadi. Scombussolata a tal punto da originare un fuggi-fuggi generale dei cosiddetti parisiens.
Per strada il vuoto: solo un’infinità di transenne, corpi di polizia e tablet a scandagliare e decidere chi potesse andare dove.
Ad ogni angolo: “as-tu le pass?”, “as-tu le pass?”, “as-tu le pass?”, …
no, non ce l’ho sto cazzo di pass, come si ottiene?, che devo fare?…
un cortocircuito cavernoso all’interno del quale ogni sguardo era sospetto e ciascuna intenzione doveva essere calibrata.
Dopo poche ore dal mio arrivo nella capitale francese avevo già rinunciato alla Tour Eiffel: due anni a Parigi consecutivi senza vederla, che di lei non mi curo, non guardo, ma passo.
Cammino una vagonata di chilometri tra le strade ancora aperte del centro: Notre Dame chiusa, la Senna blindata, i ponti per attraversarla un terno al lotto… così vago, da perfetto flâneur convincendomi di essere il personaggio giusto per quella trama.
Il secondo giorno voglio essere preparato, e conscio di avere davanti a me ancora tante ore da trascorrere decido di impregnarle con un bagno di cultura: si va a Louvre caro il mio flâneur!, ma la scritta rossa gigante sul sito del museo mi riporta subito coi piedi per terra: Fermeture extraordinaire!
Il buon Macron s’era svegliato prima di me e aveva prenotato tutto l’edificio per la cena istituzionale con gli altri capi di stato: low profile il nacchero.
Ripiego sul Pompidou passandoci praticamente tutti i giorni: vuoi per la mostra sulla Nike, vuoi per il tubo che sale e offre uno sguardo privilegiato sulla città, vuoi anche solo per i servizi igienici… mi ci affeziono e lo rendo centro nevralgico del mio naufragare.
Parigi rimane così immobile. Niente della capitale francese sembra essere afferrabile e di conseguenza esperibile, tutto sembra minuziosamente costruito all’interno di una bolla entro la quale vigono tempi e regole diverse. Vi è una calma surreale per le vie del centro e il silenzio è solamente interrotto dai rumori delle sirene o degli elicotteri: il caro prezzo del controllo passa anche dalla svendita della propria serenità.
E come Parigi, rimane immobile anche il motivo per il quale, per sbaglio, nella capitale ci sono finito: Emile, il ragazzo della Grecia. Un messaggio dopo più di un anno di latitanza era bastato per riaccendere il ricordo di un fuoco divampante: “Come to visit me!”, così, ingenuo.
“Of course! Let me check the flights.”, io quando all’ingenuità non rimane che il sangue.
Così una settimana dopo ero da lui, sognante nel pensare di ricostruire un passato perfetto per il contesto di allora. Invece Parigi, il tempo, e i millemila passi trascorsi in silenzio tra le vie secondarie della città, mi hanno insegnato ben altro: scegli con la testa Jacopo, ancor meglio scegli con il cuore, ogni tanto buttati e scegli di pancia, ma col cazzo Jacopo non scegliere mai.