…when I moved in France, at the beginning I felt lost because I couldn’t feel the sound. I was so focus on the meaning that I forgot the vibes, the frequency of the sounds. It’s another language, but still it works through vibrations. So, once I learnt the language I couldn’t feel the sound anymore. My instinct was polluted by the knowledge. That’s why I’ve decided to study what comes before the meaning, actually what comes beyond it. I started with foreigners, then nature, animals and now corals…
@julialemabarros , trust me, she’s an artist
V.V.V.
JZ:RF 2.0, con molta più voglia di chillare.
Ho sentito persone che non amano gli inglesismi, così non lo dico, ma non mi priverò dal farlo.
Parto in van: ho bisogno di una coccola, di uno spazio mio, di un gioco che si passa il turno con una vista stupenda.
Parto in van e già dal viaggio assaporo una musica diversa. C’è Rita al mio fianco e una miriade di parole traducibili con una sola: paura.
Ho paura di me stesso accanto ad una ragazza, ma Cella Monte è troppo vicina e del tempo per scovarsi/svuotarsi/spogliarsi non ce n’è poi tanto.
Arriviamo in ritardo sul programma, salvo poi scoprire di essere in anticipo sulla realtà. Il pacchetto JZRF è fatto di improvvisazione.
Saluti, formazione e BANG: lo starter indica la strada. La mia la riconosco subito: è corta, fresca, fatta di belle persone. Va da una chiesa sconsacrata ad un’enoteca; in mezzo un camperino e un infernot, che pure il correttore grammaticale si vede che rosica dalle fastidiose righine rosse.
So quello che voglio, o per lo meno, riconosco la struttura all’interno della quale voglio architettarmi la mia jazz_routine: vino, van e visioni.
Incastono 3 “v” così da sembrare un virtuoso visionario, quando in realtà è lo scompenso narcisista il paroliere di tutta questa fuffa.
Io vorrei solo bere del buon vino da quei bravi ragazzoni che già l’anno scorso tanto mi erano piaciuti, ingarbugliarmi nel brontolio della moka e godere della suono partorito dalle menti variopinte di questo festival.
Niente più caos, recitazione, risentimento. Sono troppo stanco per giocare ad essere un altro Jacopo.
Sarà poi una bolla bianca di Barbera a dirmi che ho scelto bene, tanto che mentre bocca e naso scoprono il Monferrato, le orecchie scoprono l’Australia e la combinazione fugace di due chiacchierate distanti anni e migliaia di chilometri (che poi forse è la stessa cosa). Una luna un lago e una panchina gigante, e il sogno abbozzato di ritornare e ricostruire.
Perché non si parte mai da zero: c’è sempre un “ri-” davanti che aiuta a far prendere la rincorsa.
Così rinculo dietro il bancone della chiesa sconsacrata: sorridere e vendere biglietti è il mio mestiere.
D’un tratto mi ritrovo solo: chi lavora lavora, chi festeggia festeggia e io che non so bene cosa ci sto a fare qui, ondeggio tra una bolla e un’occhiata nascosta dietro le lenti scure.
Risuonano le trombe e centinaia di persone continuano a scivolarmi attorno: se stessi fermo farei decisamente più scalpore.
“Tu sei Jacopo?”, mi fa Silvia afferrandomi il badge.
“Ci provo, non sempre ci riesco. Tu? Sei Silvia?”, le faccio io dopo aver spiato il suo cartellino.
Un istante di esitazione, poi la stessa risposta: “Bo, forse…”.
Davanti a noi si staglia un prato, un palco e poi un paese…
e l’invito a far niente si fa gaudente.