“Hombre?”
Dopo aver mancato la chiamata.
“Oggi ci sei?”
Passa un giorno e nessuna risposta.
“Lag quando ci sei?”
Rendo esplicito il mio bisogno di un amico, e finalmente dall’altra parte del mondo, e del telefono, si paventa un indizio: “Sentiamoci oggi Lam, quando vuoi.”
Lag (La Julienne) è in Australia ormai da 5 mesi e forse mai, nella nostra esistenza fatta di intrecci, lontananze e sovrapposizioni, eravamo stati così fisicamente distanti. Fisicamente sì, perché il resto… il resto continuava a sorprenderci.
“Lam sai che cosa sto imparando a dirmi?”
Resto in silenzio perché volevo che quello spazio fosse solo ed esclusivamente suo.
“Piano piano. Piano piano, Lam. Me lo ripeto: per le cose ci va tempo.”, e mentre lui guidava da un punto indefinito ad un altro della costa ovest australiana, io mi sorpresi incapace nel trattenere un sorriso.
“Non ci credo”, lo interrompo, “é incredibile… sai cosa ho detto a mia mamma quando mi ha chiesto come stesse andando a Valencia?”
E questa volta è Lag che si rifugia nel silenzio.
“Piano piano, Lag.”
il mio ventinovesimo compleanno
Il 17 era il mio compleanno.
Il mondo dei social credeva fosse il 18.
Ne ho fatti 29. Sulla carta. Perché per Gagou potevano essere benissimo 36 e per il me pigro e irriducibile ancora 25.
A lavoro mi dicono chiaramente: “El 17 tu no trabajas! Disfrutalo!”, e per sicurezza mi lasciano libero anche il 18, con un occhiolino e la certezza che ne avrei avuto bisogno.
Festeggiare da soli in un’altra città porta sempre con sé una mescolanza di energie strane: se da una parte la quiete della mia persona mi invita al donarmi del tempo, dall’altra la mancanza delle attenzioni altrui mi mantiene orizzontale scivolando in personalismi e cattivi pensieri.
La linea orizzontale
Ci spinge verso la materia
Quella verticale verso lo spiritoInneres auge, Franco Battiato
Mi sveglio presto, a Valencia sembra non piacere vedermi riposato. Quasi lucido scivolo nel triangolo delle cose da fare: colazione, telefono, bagno; inciampando sulla seconda nell’amara aspettativa di un qualcosa, o di un qualcuno. Dopo troppo tempo passato troppo veloce davanti allo schermo, mi sembra già di aver buttato via la mia verginità quotidiana. Vorrei ricevere gli auguri da lui, lui, lei, l’altra... ma la realtà è un’altra e mi devo “accontentare” di poche persone. Poi un sussulto e la ferma intenzione di volersi regalare una giornata speciale: con un colpo di reni mi tolgo di dosso la polvere dell’ego e, guidato dai fumi di uno stecco di palo santo, inizio a meditare.
Mi libero dei sogni. Della manipolazione. Della felicità falsificata dall’aspettativa.
Io non sono questo. Ma un po’ anche sì.
Sono lo stesso che predica consapevolezza e ricerca consensi.
Lo stesso che cade nel tranello della voce altrui: sono gli altri a dirmi quanto valgo.
Lo stesso che ricerca nelle notifiche di uno schermo gli auguri e le attenzioni dei personaggi secondari del racconto.
Sono carne, e viscere bagnate dal sangue.
Inspiro.
Trattengo.
Espiro.
Trattengo.
Termino la meditazione e mi metto in viaggio verso il mio primo vero almuerzo, e il mio primo vero cremaet.
Raggiungo il bar prescelto col sole che tintinna calore ad ogni incrocio, e il fresco dell’ombra a ricordarmi che è pur sempre dicembre; mi siedo e domando il piatto più tipico di Valencia. “Vale”, risponde la cameriera. E mentre addento lento il bocadillo ancora caldo, un rumore insolito alle mie orecchie rompe l’equilibrio di tanta empasse: un’anziana è stata investita proprio di fronte al bar. La maggior parte dei clienti esce a vedere, una bambina fa il percorso inverso ed entra nel bar piangendo, il proprietario si affaccia preoccupato, e io… nel turbinio di quella folata di vento, mi chiedo che fare: uscire a vedere o continuare ad almorzar?
La vita è buffa, penso. Mentre io mi godo l’idea di un cremaet nel giorno del mio compleanno, a pochi metri da me un’anziana viene investita da un furgone.
Metto da parte l’etica, e tutta la stravaganza che si porta con sè.
Di fronte a me un uomo dalla barba canuta sorseggia una birra.
In quel momento mi rendo conto di aver deciso e, con un’intesa di sguardi, noto la giovane cameriera pronta a soddisfare il mio gastro-desiderio.
Mi alzo, pago e chiedo indicazioni per Alboraya: pare che l’horchata migliore si beva lì.
“20 minutos en esa dirección”, mi suggerisce il proprietario, dopo avermi regalato un poster.
Esco e mi incammino: ho il sole, e il buon umore dalla mia.
Mentre passeggio noto, dall’altra parte della strada, un uomo uscire dal portone di casa con un materasso; lo supero, credevo. Avanzo di una decina di metri, e finalmente mi decido: vado a chiedergli se lo sta buttando. Il letto dove dormo mi è scomodo, e comunque, un altro materasso mi sarebbe utile nel caso qualche amic* venisse a trovarmi.
“No, lo siento”, mi risponde con una gentilezza inaspettata.
Ringrazio. Sorride.
Sorrido.
E mi allontano.
Non ho più voglia di horchata, nè tanto meno di fartón. Così alla prima occasione cambio direzione e prendo la metro per el turia. Intanto mi chiama mia nonna per farmi gli auguri, e quando le dico che le voglio bene, bambina, mi risponde: “io di più”. Accetto la sconfitta: mi devo “accontentare” di poche persone.
El turia è riscaldato da un sole morbido e accogliente e la vista di una lunga panchina illuminata, occupata da un signore impegnato nella lettura di un vecchio libro, mi rapisce. Mi ci siedo accanto e anch’io mi lascio cadere tra le righe di un racconto.
…
“Adios”, mi rivolgo all’uomo prima di andarmene.
“Adios”, e un inaspettato sguardo curioso.
Cammino verso casa continuando ad oscillare tra le spine della bellezza e la sorda implosione di un qualcosa che, comunque, continua a mancare. La musica in cuffia sembra disinnescare il botto del ritorno alla linea orizzontale. Entro in casa e mi serro in un intenso programma di lontananza dal telefono: pulisco la cucina, pulisco il frigo, vado a crossfit, mi faccio la doccia, cedo.
“Ma il tuo compleanno non è il 27?”, mi risponde Giulia dopo averle raccontato della mia giornata.
“17 miss. Adesso mi aspetto una storia dove dichiari la tua colpevolezza. Tutto il mondo deve sapere.”, gioco la carta dell’artefatta celebrità. Ho bisogno di attenzioni. È il mio compleanno e vorrei che la gente se lo ricordasse e che dedicasse un attimo della sua giornata a me. Sono fragile. Sono vulnerabile. E ancora sento che è il consenso a reggere le spoglie del mio corpo inerme. Scrivo queste righe con fatica: il giudizio mi porta a disegnarmi debole e vanitoso, ma solo così posso accettare il mio essere umano.
La sera ho invitato delle belle persone a cena fuori: comida valenciana, è il mio regalo. Il tavolo rotondo trasforma l’imbarazzo degli sconosciuti in un incrocio costante di traiettorie curiose e divertite. Sono fortunato, credo, penso, sento. Il cibo è una parola sofisticata dell’alfabeto più antico del mondo, e il brindisi di un ultimo bicchiere amplifica il suono di un attimo di tempo altrimenti umanamente ignorato.
Sono qui. Siamo qui. Insieme. In questo granello di Universo.
Mentre torno verso caso abbraccio sempre più forte Giacomo e Anita.
Incrocio un materasso abbandonato per strada.
Lo supero.
Mi volto.
Torno indietro.
Ho dormito bene.
Poco, ma bene.