Sogno un cucciolo di toro nero sprigionarmi addosso tutta la sua forza in potenza, e dopo essermermela cucciutamente cavata vedo il padre prendere il suo posto: adesso è un enorme toro nero a caricarmi. Mi scaraventa al suolo, mi rialzo, mi colpisce ancora, ma a stento mi rimetto in piedi, un altro colpo… mi sveglio.
Sogno di essere accusato di stupro. Sarebbe successo in Olanda, quest’autunno, con una ragazza della quale non ho memoria. Io che nell’onirico ero me stesso infatuato di un ragazzo. Lo sguardo deluso e preoccupato di Joanna, i miei tentativi di spiegazioni inutili, le lacrime di lei e la mia istrionica personalità tramutatasi in un attimo in bestia. Mi sveglio.
Sogno i grattacieli del quartiere di fronte avvolti da un abbraccio di fumo e polvere, e il rimbombo di un rumore rinchiuso in una bolla. Un terremoto stava radendo al suolo la città e l’attesa di essere il prossimo ad essere fagocitato dalla terra stava distruggendo qualsiasi barlume di speranza. Poi il niente: nessun crollo, nessun vetro rotto, nessuna sirena. Soltanto il terrore ingigantito dalla paura di stare vivendo in una reltà immaginaria. Mi sveglio.
Sogno che è il mattino del primo giorno del Salone Internazionale del Libro di Torino. È tutto pronto e a me, come al solito, viene affidata la supervisione del padiglione del Centro Congressi. Un ultimo brief e si parte, ma manca un walkie-talkie e i sudori freddi del disastro di due edizioni fa tornano alla mente. Mi sveglio.
l’inverno dell’orso
Vediamo se riusciranno a farmi piangere anche quest’anno, pensavo, mentre dentro di me sapevo che c’era qualcosa di sbagliato in quella formulazione.
Vediamo se piangerò anche quest’anno, e seppur il cambio di soggetto sembrasse l’aggiustamento più azzeccato, sentivo che c’era ancora qualcosa che strideva. C’era la consapevolezza di un gesto per natura incontrollabile, ma per cultura controllato, a farmi risuonare il sospetto che comunque sarebbe successo.
E mentre cercavo la frase giusta mi ritrovai catapultato dai 24° di Valencia ai 2° di Torino, con un mappamondo in mano e l’abbraccio di mamma pronto a riaccogliermi per Natale. Non avevo dubbi sul fatto che sarei tornato per le feste.
“Viaggiare non è fondamentale, ma è importante per capire cosa è fondamentale.”, scrivo ad un ragazzo sconosciuto in Thailandia, mentre condivide il suo malessere nello stare lontanto dalla famiglia il giorno di Natale. Dalle cucine di Masterchef alle aule dell’Università di Pollenzo, oggi si trova in viaggio nel sud est asiatico da solo, con uno zaino, e la curiosità e la malinconia a prenderlo per mano. Capisco benissimo cosa sta provando, sento dopo aver letto le sue righe condivise su una IG story, e di getto gli mando un messaggio, che forse era un abbraccio, provando a sollevarlo un po’ da quel dolore che egli stava provando, e che io avevo provato.
Non passerò mai più un Natale lontano dalla mia famiglia, devo essermi detto dopo aver fatto del Covid la scusa per starmene lontano.
Così il 24 mi ritrovo a scegliere un outifit volutamente leggermente provocatorio tra i pochi rimasti a casa a Torino.
Poi macchina, poi cenone.
Uno Champagne per iniziare la vigilia.
Un Franciacorta per chiudere Santo Stefano.
Tra i due metodi classici una sfilza infinita di forchette, bicchieri, e cucchiai portati alla bocca, che mentre compieva la magia di far scomparire il cibo, resistuiva al mondo una gamma cromatica di parole, dalle più superficiali e quelle trattenute perché ancora troppo intime.
Improvvisamente mi ritrovo sobbalzato, a piccole dosi, nel tavolo dei “grandi”: da quando Babbo Natale non esiste più, mi sono vestito da politogolo, psicologo, enologo… e tante altre parole che fanno del -logos il cuore pulsante di un essere tanto animato, quanto animale. Apparecchio discussioni che spaziano dall’affascinante potenziale delle nuove generazioni, al disagio di un abbraccio lungo 5 minuti, ricordando a me stesso l’invito di A.: “E mi raccomando, stasera al cenone fatevi valere con i parenti un po’ fasci”. Leggo, ascolto, metabolizzo e mi parlo: “se dovesse succedere, non deglutire Jacopo.”
Faccio dei passi avanti, anche se di fronte ad un’alzata per la seconda linea, mando la palla dall’altra parte con un morbido palleggio: “nessuno mi aveva chiesto di schiacciare”, il diavoletto sulla spalla destra; “nessuno ti aveva detto di non farlo”, l’angioletto su quella sinistra.
Mi domando ora chi mai avrà voglia di capire questa metafora, e nel farlo sento amplificarsi nella mia testa il regolare ticchettio contenuto-creatività: “devi scrivere!”, dice il primo.
“sì, ma cosa?”, risponde il secondo.
“del Natale, no?”
“ma non so cosa”
“ma come no? la vigilia, il tavolo dei grandi, il 25, i regali mancati, le foto, le lacrime, la techno, il 26, gli abbracci…”
“ma non mi viene fuori niente, e poi, a chi dovrebbe interessare? ho scritto una lettera, potrei pubblicare quella”
“bella scusa… così non ti devi impegnare nel creare un contenuto: copi la lettera qui e la pubblichi”
“hai ragione”
Lascio fare.
Mi ero promesso che questo spazio sarebbe stato uno spazio libero.
Mi ero promesso che almeno qua, sul mio blog, mi sarei concesso di essere libero.
Di scrivere, fare, disfare, essere ridondante, ripetitivo, noioso, talvolta piacevole, altre semplicemente me stesso.
La verità è che ho vissuto questo Natale come lo spazio raccolto tra due parentesi: tra il prima, Valencia, e il dopo, Valencia. E che in questo spazio ho provato ad inserirci tante cose: la famiglia, gli amici, le emozioni, le aspettative, i ritorni, le novità… ho provato a risolvere l’equazione racchiusa tra le tonde dando un valore alle incognite della formula, e ignorando a più riprese che io, sta benedetta equazione, proprio non la volevo risolvere. Non volevo uscire dalle parentesi. Così posticipo la partenza per la Spagna, medito e rinvio la scrittura di queste righe consapevole che prima o poi avrei dovuto ammettere a me stesso, Jacopo, e a averynormalguy, che in questo momento a Valencia non ci voglio tornare. E non perché Valencia sia brutta, e Torino sia più bella; ma perché semplicemente sento l’arrivo dell’inverno, del comfort, del cozy. L’arrivo di un periodo durante il quale raccogliersi tra luoghi noti, braccia amiche, silenzi confortevoli… senza la smania della novità e delle costruzione di una nuova vita. A Valencia non ci voglio tornare perché sento di essere stanco. Stanco di chiedere al cervello di imparare una lingua nuova, di chiedere alla curiosità di partorire nuove domande, di chiedere alla creatività di trasformare un’idea in un progetto, e alla determinazione di trasformare un progetto in una sfida. Stanco di non avere un messaggio facile da inviare all’amico di sempre. Stanco pure di pensare a cosa fare. A dove stare. A chi essere.
Tre inverni fa vivevo in un bosco.
Ero stanco.
Pescai una carta: l’orso.
Me ne andai in letargo.
E mi presi cura dei miei silenzi.
…
Chissà quando piangerò quest’anno, era poi la frase giusta. Perché, come ogni anno, quando io, babbo, mamon, rebe e rich, ci scambiamo i regali, improvvisamente smetto di vedere, appannando la vista di morbide lacrime calde.
Natale sta tutto qua, nello spazio commosso tra due parentesi.