UN NUOVO ORECCHINO

da | Gen 13, 2025 | Gennaio 2025

Thibault mi ha detto che “sentirsi perso” non lo fa sentir perso.
Joanna invece, anni fa, mi colpì quando mi chiese: “how long are you gonna play lost?”, come se il sentirsi lost fosse un gioco.

In entrambi i casi, ho sentito una sorta di leggerezza posarsi sui miei abiti da ragazzoIdon’tknow.

IL TEMPO DEL TRE

Dal tavolo in salotto vedo le case di Valencia.
Vedo il sole posarsi stanco sulle sue facciate color estate.

Dal mio ritorno qui a inizio gennaio, sono ancora incerto su questo sentire.
“Mi sento bene”, non osa la dire la bocca.
Come se quel pianto furibondo si fosse portato via le scorie della paura.

Mentre terminavo, con il gusto della fatica, l’ultima serie di squat jump ho pensato: quando finisco vado a farmi un orecchino. Era stata la farmacia di fronte al parco di Benimaclet a suggerirmelo. Faccio ancora qualche “suicidio” sul campo da basket, raccolgo il fiato, il telefono, le chiavi e vado.
“Hacéis este?”, indicando con la mano gli orecchini che porto all’orecchio sinistro.
“Los pendientes?”
“Vale”
“Asì”, face le farmacista prendendo in mano una carta con orecchini di diversi colori, “tenemos este, de este color, asì un poquito mas luminoso…”, sfoggiando il catalogo.
“Tienes negro?”, aspetto che finisca lei.
“Negro?”, quasi stupita, “no, negro no.”
“Vale, vamos por este.”
E dopo una decina di minuti ero fuori dalla farmacia con una bottiglietta d’alcool disinfettante in mano e un nuovo buco all’orecchio destro.

Che poi ci avevo già provato a Torino, durante le vacanze di Natale, a farmi un buco, ma niente, la farmacista questa volta era stata meno accondiscendente, liquidandomi con un: “deve chiamare e prenotarsi”. L’orecchio destro chiamava ed io non potevo più permettermi di non ascoltarlo: la chiacchierata con Francesca il giorno prima aveva acceso una miccia, era ormai solo questione di tempo…

“È che mi piace la Natura, la sua fermezza, la sua stabilità; ma allo stesso tempo non riesco a non definirmi attratta dal frenetico movimento delle città. C’è una sorta di contraddizione in me, che trova casa tanto nell’espessività statuaria della fotografia, quanto nel ballo libero e animalesco…”, e via così: mentre i nostri passi intessevano una tela di nodi ingarbugliati per le vie del centro, Francesca si raccontava dando spazio a quel Fauno che Maurizio Carucci identifica come centro di gravità permanente degli estremi del suo essere un po’ uomo un po’ animale.
“Sai, io all’inizio credevo di essere uno. Credevo di essere un qualcuno: Jacopo, con le proprie caratteristiche, slegato dal mondo e dal circostante. Io ero: senza contesto e senza relazioni. Ecco quello era il tempo dell’uno. Era il tempo durante il quale ero così impegnato a definirmi che la lente d’ingrandimento che avevo puntata su di me mi impediva di vedere ciò che c’era fuori, anche solo ad un passo da me.
Poi, piano piano, ho iniziato a relazionarmi con ciò che avevo attorno. Ho iniziato ad osservare, a comprendere (nel suo senso etimologico di prendere e mettere assieme: cum-prehendere), a confrontare quell’uno, così apparentemente stabile, con l’altro, a volte così diverso, altre quasi uguale. E nell’incauto e giovane pensiero, ha iniziato a prender forma il due: c’ero io e c’era qualcos’altro, c’era ciò che era simile a me, e ciò che invece ne era distante. Da questo gioco di prossimità e lontanza è nata poi una linea, che divideva il mondo in gente dalle caratteristiche comuni: da una parte la libertà, dall’altra la sicurezza; da una parte il dinamismo, dall’altra la stabilità; da una parte la creatività, dall’altra la razionalità… e così via, categorizzando, seguendo i miei stereotipi mentali, ciò che mi era affine da ciò che credevo non lo fosse. Così anche la mia identità aveva piano piano iniziato a credere al potere della dicotomia, schierandosi in maniera netta dalla parte dei liberi-dinamici-creativi-blablabla. Bene, a quel punto avevo costruito anch’io un personaggio: ero gay, ero mancino, vivevo nei boschi, non avevo un lavoro, ero l’alternativo… ero tutto quello che poteva stare dalla “parte giusta” della linea del due. E anche la mia estetica rispondeva di questo bisogno identitario: un tatuaggio sul braccio sinistro, poi due, tre, quattro, cinque, sei… tutti a sinistra: proprio come gli orecchini, tutti a sinistra. La libera espressione era roba del corpo mancino, e senza che lo sapessi stavo iniziando io stesso a diventare una linea: da una parte l’artista, dall’altra il razionale, da una parte il sagittario, dall’altra la vergine. Il mio corpo stava diventando il tempio di tale credo, a tal punto da convincere me stesso di voler preservare questa nature duplice e in contrasto con sé stessa. Il tempo veniva suddiviso per bisogni: da una parte quello economico, strutturale, di costruzione e di evasione, che si traduceva di solito con sessioni bi-tri-semestrali di lavoro e distrazione (il periodo del sesso per intenderci); dall’altra la fuga, il viaggio, la solitudine, la spiritualità… momenti di intensa connessione e creatività che nutrivano il mio essere animale. Ero finito col crederci, così tanto da non crederci più, e col tempo qualcosa ha iniziato a stridere nella narrazione. L’incasellamento costante mi portava a dover fare piuttosto che a lasciarmi fare, costringendomi spesse volte ad un inutile sforzo di comprensione della realtà.
Da lì, piccoli segnali: “can you embrace both sides?”, mi domandò Joanna; “Yoga vuol dire unità”, mi insegnò Elia; poi gli abbracci con mia sorella (da sempre collocata lontana dall’altra parte della linea del due), la voglia di ascoltare, il richiamo libero e gratuito del “fallimento”… piccole sollecitazioni alla struttura solida ma eterea del muro, che mi hanno portato ad una curiosità nuova. Ecco, sento che sta arrivando il tempo del tre: dove per tre si intende l’unità, l’equazione dove 1+1 non fa 2, dove i colori si mescolano e danno vita a sfumature sempre nuove, in continua e pacifica evoluzione. Non c’è più ri-voluzione perché non c’è più la ri-petizione ossessiva del gesto. Rimane l’evoluzione, intesa come consapevole accettazione del cambiamento.
Dove sto andando non lo so Francesca, ma sento che sto entrando in una fase nuova… sento che ne ho bisogno. Ed è per questo che lo storytelling del mio corpo mi chiede un orecchino all’orecchio destro: perché non vi siano più pareti tra le tanti parti del tutto.”

A quel punto Francesca si era fermata e forse aveva detto “wow”, o forse non lo so.
Di sicuro sapevamo che saremmo andati in enoteca a comprare una bottiglia di rosè, e con la disinvoltura donataci dal suo contenuto ci saremmo improvvisato deejay con la console di Renato.

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