“Per me è il servire“, la risposta di Diego a una domanda fatta dal verde della montagna, “è l’atto del servire. Quello di restituire, di fare senza ritorno.”
“E c’è un libro che più di altri ti ha colpito nel racconto di questo servire?”, chiedendogli timido di poter entrare un pochino di più nel suo mondo.
Il rumore dei passi sull’erba.
Io, Villa e Diego in fila indiana.
Non fa mai veramente caldo in montagna.
“Sancho Panza con Don Chisciotte. Quando Sancho Panza riconosce la pazzia dell’amico, quello che gli interessa è passare del tempo con lui, al di là della fattibilità delle sue imprese. Sancho Panza serve l’amico: dona incodizionatamente. E quando la morte si sta per portare via Don Chisciotte, Sancho pronuncia queste parole:
Non muoia, signor mio […] la sua follia mi ha dato la sanità, e la sua morte mi darà la pazzia
Don Chisciotte della Mancia, Seconda Parte, Capitolo LXXIV
Per me è questo il servire, ed è la cosa più importante…” e mentre Diego si spiegava, io avevo già preso il treno delle mie fantasie.
NON È TUTTO VERO QUELLO CHE DICI
Quando ho smesso di scrivere?
Quando ho smesso di raccontare, sovrapponendo il biasimo all’osservazione?
Da una mail del 2 aprile 2024: “Quello che non mi piace ma semplicemente perché riconosco la psicologia che c’è dietro è la questione ”umiltà” in diversi passaggi come se volessi scusarti di quello che fai, ci sta fare le cose in punta di piedi e magari dimostrarlo ma in questo caso penso sia un po’ troppo quindi ti consiglierei (non subito e comunque segui il tuo istinto sempre!) nel tempo di cambiare approccio, più deciso, stai condividendo cose tue e che conosci, hai diritto di farlo e quello che fai è prezioso […]“
Le parole sono di uno sconosciuto che da lontano ha preso la mira e ha fatto centro.
Rileggo gli ultimi due articoli e ne esco deluso: manca il piacere, mi dico.
Io vittima.
Io sconfitto.
Io solitario.
Io calamita di eventi per la sola brama di poterli scrivere.
Ma ora non scrivo più.
Mi costa fatica.
E non mi diverte.
Annego il flusso creativo nella coltivazione estensiva di dopamina: sterminati campi di social, serre di droghe, annaffiatoi pieni di alcool e mangime confezionato nella ricerca sociale di consenso. La dopamina è la carota che mi penzola davanti agli occhi, legata al bastone che porto sulla schiena. Un’instancabile serie di passi per tentarne un morso, povero ed effimero.
Sopraffatto dalla stanchezza mi massaggio le meningi alla ricerca delle prossime parole da impilare in questo continuo vomitarmi addosso le mie colpe.
NON È TUTTO VERO QUELLO CHE DICI, parlando a me stesso come se fossi un’altra persona.
Martedì inizierà la guerra, è il sogno che mi ha svegliato domenica mattina nell’ennesima montagna ormai puzzle dei miei fine settimana. Per fortuna che c’è di mezzo ancora lunedì, il sollievo mentre mi facevo un caffè prima di abbandonare le gambe alla corsa. La salita ha da subito mostrato il petto, ma il cuore, le gambe, i polmoni non si sono tirati indietro nel voler, ancora una volta dimostrare di… dimostrare. Supero i primi tornanti e noto il fiato iniziare a distendersi rilassato tra le due fasi che dettano il ritmo della corsa. La strada si fa una piacevole melodia di morbidi sali e scendi e le foglie di ogni forma e dimensione mi ciondolano ipnotiche alla vista.
Di quello stesso sogno, prima della guerra ero un allevatore di cervi e, al contatto, nel recinto, di una foglia a forma di mano, mi sono esplose le lacrime agli occhi. Un po’ Alice nel paese delle meraviglie, un po’ Stefano Mancuso, recepisco chiaro il messaggio.
Intanto le gambe continuano a correre, mentre la mente rimbalza tra il timore di ritornare troppo presto e la suggestione di una casa in campagna. Le salite quasi non si notano più, mentre le discese sono occasione rara per riscoprire la biomeccanica delle ginocchia e delle caviglie. Mi sento lepre, falco, gazzella. E svincolo dalle redini delle contrazioni il freno di una corsa sicura e controllata: ora capisco il perché di una buona suola nelle scarpe.
Mi si fa incontro lo scrosciare di un fiume, e con il suono, anche il ricordo di Afrodite che, qualche giorno prima, mi aveva invitato a tuffarmici, come se fosse prassi per gli abitanti dei boschi.
L’acqua fredda invita ad una presa di decisione salda e irreversibile.
Mentre corro, l’immagine dei lei Amazzone che sfiora l’acqua con la sua pelle nuda, mi libera da ogni papabile titubanza.
Lascio la strada ed individuo in un masso il custode di tutto ciò che voglio lasciare fuori dall’acqua: scarpe, calze, pantaloncini, mutande, paure, turbamenti e pensieri. Medito qualche minuto, per ricordarmi che so ancora respirare.
Poi nudo, mi avvicino sicuro nella pozza al fianco della cascata.
Il freddo è sopportabile, ma quando metto la testa sotto riconosco che ci sono parti del corpo più e meno sensibili a tali variazioni termiche.
Mi immergo, risalgo e respiro.
Mi immergo, risalgo e respiro.
Mi immergo, risalgo e respiro.
La quarta volta sento il cranio stringersi attorno alle meningi.
“They say that submerging your head underwater has the same effect as cocaine.”, mi aveva incuriosito Afrodite riemergendo dall’acqua.
Ascolto l’acqua ribollire tra i sassi.
Se non ci fosse stato un altro mondo ad aspettarmi probabilmente sarei rimasto lì.
Ad aspettare che il potere del verde facesse effetto.