DI LÀ DA LA STRADA

da | Lug 29, 2025 | Luglio 2025

Il ragazzo, capello nero, sandalo mezza taglia di troppo, gli si avvicina con un sorriso e il telefono in mano.
Peter lo saluta, e d’istinto osserva lo schermo del cellulare:

“Hi. Could you please inflate the bike tyres?”, legge a voce alta.
“Sì. Però poi ti do anche un bacio”, gli risponde passando dallo schermo al volto del ragazzo dai tratti orientali.

Il ragazzo, testardo nel suo sorridere, non dice nulla, cercando qua e là segnali per tentare di capire qualcosa.

“I can inflate your bike tyres, of course. But only with a kiss.”, gli porge una mano Peter, ai miei occhi troppo incauto per il 21esimo secolo.
Il ragazzo lo guarda. Ha capito? Non parla inglese? Ha capito ed è rimasto scioccato?
Il ragazzo lo guarda, e Peter incalza: “A kiss. You know?”

Dalla mia posizione sicura e privilegiata, giudico quegli istanti di incomprensione dipingendoli con il colore dell’imbarazzo.

“Yes. I’ll inflate your bike tyres. It’s for free, of course. And I give you a kiss.”, tenta l’ennesima spiegazione Peter.
Il ragazzo questa volta reagisce: un cenno con la testa per dire di aver capito, e un altro con la mano per accettare la proposta. Peter allora prende la bicicletta e la porta in laboratorio, dal quale si sente il suono del compressore attivarsi. Il ragazzo passeggia scosso tra le bici esposte in negozio, dubbioso su quella bizzarra richiesta. Un paio di minuti dopo Peter rientra, appoggia la bici alla parete, e come un padre il primo giorno di scuola di suo figlio, stringe il volto del ragazzo tra le sue mani e gli dà un innocente, gentile, troppo umano, bacio sulla guancia.

Il ragazzo trasforma il proprio sorriso nello scioglimento di un ghiacciaio.
“Grazi”, inciampa nell’italiano il giovane prima di salutare.
“Sii felice”, lo incoraggia Peter, prima di ritornare in laboratorio.

Incrocio il suo sguardo e non mi trattengo dal dirgli: “Tu sei matto!”
Peter mi si avvicina con la fermezza del saggio: “È tutto così semplice. Poi ti dirò una cosa che ti farà capire molte cose.”, e prosegue verso il laboratorio.

Io mi siedo, e aspetto.

FINALMENTE HO PERSO

L’unica birra l’ho bevuta in aereo, di ritorno da Amsterdam verso Torino: speravo che l’alcool mi aiutasse a dormire.
Appena atterrato a Caselle, pago 65€ di parcheggio e mi metto in macchina direzione Susa: c’era l’Alta Felicità e la stanchezza, benché in numero nettamente superiore, aveva sopperito dinnanzi all’esiguo, ma inferocito, esercito della curiosità.

Il viaggio fino a Susa è un interminabile rettilineo agli 82km/h: la macchina ha il cambio rotto e non entra più la quinta. Per tenermi sveglio canto Battisti, mentre un sussulto inizia a smuovermi lo stomaco.

Trovato parcheggio affido ad un gazebo con le locandine del festival l’onere di essere la fermata della navetta che mi avrebbe portato a Venaus: sicurezza che deve aver contagiato anche i tre ragazzi spagnoli che mi si sono affiancati convinti che io sapessi cosa stessi facendo. Dopo qualche istante di animalesca osservazione: “Passa di qui la navetta?”, mi fanno loro con inconfondibile accento meticcio.
“Ah non ne ho idea”, mi svelo esordiente, e mentre confesso spunta un bus dall’altra parte della strada.
Neanche il tempo di avvicinarci che l’autista ci fa segno di aspettare lì, sarebbe arrivato alla rotonda poco più avanti, e avrebbe ripreso la corsa nella direzione opposta. Salito sul pullman metto nel mirino i sedili in fondo e determinato ci butto lo zaino prima, e il mio corpo poi.
Appena appoggio la testa al finestrino, Andrèas, uno dei ragazzi spagnoli appena conosciuti, attira l’attenzione dei pochissimi passeggeri di quell’ora ormai tarda: “Di chi sono queste?”, domanda, sventolando con la mano destra un paio di cuffiette.
“Mie cazzo!”, toccandomi d’istinto le tasche, “Gracias hombre!” e vinco la sua compagnia per la durata del viaggio.

10 minuti dopo ero all’Alta Felicità.
Un mare di tende mi riempiva gli occhi da destra a sinistra.
La geografia si era trasformata in una linea retta di asfalto che divideva la Terra in “di qua da la strada”, “di là da la strada”, mentre tutto il resto erano inutili tentativi di comprensione della realtà.

Come li trovo i miei amici?, pensavo a voce altra mentre salutavo i ragazzi spagnoli, non ho nessun punto di riferimento, e ogni angolo di festival è una tenda uguale a sè stessa e alle altre.
Faccio della tecnologia la risposta a tanto dubitare: un puntino blu su maps mi indica la posizione delle nostre tende. Ama è stato di parola, e giunto in prossimità dell’obiettivo vedo lui, Isco, Renna e Sofia dividersi le ultime gocce di una bottiglia di gin.
La mia tenda è la prima affacciata sul passaggio. La guardo distrattamente e rimango colpito dalla dedizione con la quale i miei amici ne hanno picchettato i tiranti. Subito la riempio delle mie cinfursaglie, e dopo i cinque e i maschi abbracci mi metto per terra a girare una zanchetta: la serotonina mi serve per il prossimo viaggio.
Il vento mi ribalta la cartina, e prima di incedere testardo nello stesso errore, mi imbuco nella tenda di Renato a portare per termine la missione. Di nuovo, mi tocco le tasche alla ricerca del telefono per farmi luce: vuota la sinistra, l’accendino in quella destra. Appoggio la cartina sul materassino e interrogo il marsupio che si rivela tanto innocente quanto omertoso. Cazzo!, penso, dove l’ho lasciato?, ma mi tranquillizzo ricordandomi che qualche minuto prima l’avevo usato per mandare un messaggio ad Albus. Mi affaccio fuori dalla tenda e in quello istante Isco si china a raccogliere qualcosa: “È tuo questo?”, mi fa impugnando un telefono. “Grande Isco!”, e mi rintano nella caverna di nylon.

“Regà, mi fate fare un giro? Così capisco dove sono?”, chiedo agli altri dopo che ciascuno ha scelto su quale giostra salire.
“Allora lì c’è un gazebo con la techno”, mi fa Ama voglioso di tuffarsi nella mischia.
“Andiamo su allora”, lo interrompe Isco incamminandosi nella direzione opposta.
I bagni.
Le docce.
Quelli che suonano i tamburi.
Quelli che vendono i panini.
Il palco sotto il tendone e quello nell’arena.
La gita contava un’innumerevole schiera di monumenti utili a trasfromarsi in punto di ritrovo in un momento qualsiasi della festa.

In arena incontriamo Sofia con una ragazza.
Lei si presenta a tutti, fino a quando tocca a me: “Jacopo?”.
“Caro?”, le rimbalzo la domanda.
“Cioè, voi vi conoscete?”, ci fa Sofia non sicuro di star capendo la situazione. E dopo avergli spiegato il perchè e il per come, mi butto con Caro tra il pubblico, mentre abbandono gli altri al loro festival.
La folla non mi scoraggia dal girarmi un’altra zanchetta, ma la stanchezza, quella sì, mi impone una sosta.

Un prato. Quello vicino alle tende.
Imposto quel rettangolo verde tra le docce e il gazebo con la techno come mio unico obiettivo.
Sento le gambe sciogliersi e peso del corpo rappiare ad ogni passo.
Vedo Isco, Renna e Ama venire risucchiati dalla cassa dritta delle loro malefatte, ma io e io miei ultimi 12 giorni di viaggio per lavoro, abbiamo bisogno di una lunga e meditata sosta.
Dal prato il festival si trasforma in uno show senza interruzioni pubblicitarie: gente che ciondola, gente che inciampa, gente che balla musiche inventate, gente che si tocca, che si abbraccia, che litiga, che mangia la polvere, che si siede sulla polvere, che parla con accento toscano, che mi attrae, che mi piace, che mi stimola, che mi verebbe voglia di conoscere, che mi verrebbe voglia di… mi sdraio. E fumo la mezza zanchetta che avevo appoggiato dietro all’orecchio.

Riconosco che al di là della stanchezza, c’era dell’altro: dovevo fare la cacca, e tale bisogno stava assorbendo tutte le energie rimaste, nel sforzo contratto di mantenimento. Folate di spinte mi costringevano ad una risposta rapida e contraria, ma dopo l’ennesima battaglia mi decido, e mi metto alla ricerca di un prato.
Fare la cacca all’Alta Felicità non è impresa facile, visto il verde colonizzato dalle tende, i boschi dai rovi e i cessi chimici da disgusto e sfregio della civilità umana. Cammino lungo la linea retta di asflato affacciandomi di tanto in tanto in qualche oscuro anfratto privo di campeggiatori: cespugli, rovi, rami… le condizioni erano impossibili per poter portare a termine la missione. Di nuovo in cammino verso Venaus inizio ad immaginarmi spiderman in uno dei cessi chimici sparsi per il festival, quando alla mia destra un prato dietro una parete di sbarre cattura la mia attenzione. Davanti una collinetta a donare un po’ di privacy, a destra e a sinistra spazio aperto, ma distante abbastanza da vialetti e accampamenti. L’oscurità la metteva la notte. Non era il miglior posto, ma era il posto migliore. Decido così di infilarmi tra le grate e di posizionarmi esattamente al centro del prato, equidistante della prime forme di vita. Sono un po’ esposto, penso, ma poi mi ricordo che è notte e, alla vista del mondo, altro non sono che pezzo di un puzzle di quel grosso quadro nero. Mi accovaccio e rapido espello il corpo estraneo dalle mie viscere. Dall’inizio solido e compatto, e dal finale invece più astratto, il risultato della defecatio mi stava donando da subito quel sollievo che sapevo mi avrebbe ringalluzzito. Un paio di salviette biodegradabili per concludere l’opera e mi alzo con nonchalant ristabilendo l’ordine del mio vestiario. Pantaloni in vita, cintura in vita, marsupio in vita e mani che ancora una volta cascano nell’istintivo tap-tap sulle tasche. Cazzo, il telefono! Di nuovo, al tocco dei palmi non corrispondeva nessuna base sottile e rettangolare. Mi sarà caduto mentre ero accovacciato, penso, accendo la torcia del telef… ah no. Un ultimo palpeggio tra le tasche… niente: l’unica strada era il tastare il terreno. Con cautela, tantissima cautela, inizio a muovere le mani su fili d’erba pensando: il telefono o la merda, o il telefono o la merda… chiedere aiuto sarebbe stato troppo imbarazzante. Dovevo cavarmela da solo, forte della geometria ottenuta dalla proiezione dell’ano sul prato e dall’incoscienza alimentata dalla vergogna. Ai primi timidi tentativi avevano risposto soltanto le foglie umide del prato: nè successo nè debacle, ma l’incrollabile certezza che sarei dovuto spingermi oltre. O il telefono o la merda, o il telefono o la merda: la cantilena si era fatta mantra mentre le mani si muovevano a ritmo di quello stesso adrenalico terrore.
D’un tratto il sogno lucido di una nuova consistenza aveva fatto breccia sulla propensione tattile del genere homo. Il mantra non rimbombava più: avevo ottenuto la mia risposta. Con la mano ancora paralizzata dallo spavento, osservavo il corpo processare la paura trasformarsi in sollievo: avevo ritrovato il mio telefono, e lasciato alla terra uno dei suoi alleati più fertili.

Se solo fossi oggetto, pregherei per perdermi anch’io per il narcisistico gusto di scoprire chi sarebbe il mio salvatore.

Tornato sull’altro prato, quello che avevo bollato come salotto, riprendo da dove mi ero interrotto: osservo e silenziosamente mi sdraio.
“Dove sei?”, si accende lo schermo del cellulare.
È Pietro, un amico di Caro.
“Su un prato, al fondo, verso la techno. Tu?”, pronto ad una nuova compagnia.
“Al main, ma le altre sono andate a dormire. Vedo se ti trovo.”
Gli mando la posizione e torno a sciogliermi.

Passiamo tutta la notte insieme.
Sul prato. A fare pipì. All’after di là da la strada.
Parliamo anche. Oltre a fumare. Oltre a ballare.
“I miei amici sono all’after al fiume, ti va?”, gli faccio dopo aver sentito Isco.
“Mmm, a te?”, preludio di un “no” non ancora maturo.
“Io sì, ci andrei: sono una ventina di minuti a piedi.”
“Vabbè ti accompagno”, colpevole di essersi messo contro sè stesso.
Neanche a metà strada, percussioni africane catturano la mia attenzione.
“Uaaaaa”, faccio a Pietro, come fosse linguaggio universale.
I suoi occhi sorridono. La sua bocca tace.
Mi bastano pochi secondi per farmi rapire da quei ritmi, così scavalco un paio di panche e inforco due bicchieri che suono a tempo sul tavolo. Davanti a me i corpi si dimenano, le voci si inseguono, i battiti rimbalzano da uno djembe a un altro. La Val Susa è porzione di Africa. Fino al gentile sorgere del Sole.

“Sta albeggiando! Torniamo all’after di là da la strada!”, faccio a Pietro, forse felice del cambio di programma.
Camminiamo nella direzione opposta a quella di tante persone.
In discesa.
Verso l’arancione della fresca alba di montagna.

L’after, questa volta, è spettacolo da vedere, e non da ballare. In disparte, osserviamo le schiene rimbalzare a 140bpm e il Sole prendersi gioco della nostra attesa.
“Acqua. Ho bisogno di acqua”, faccio a Pietro, stanco di qualsiasi cosa.
“Andiamo”, facendomi strada verso le fontanelle.
“Quindi? Ormai sono le 7, andiamo a fare colazione a Venaus?”, dice la mia mente, mentre il mio corpo si annienta.
“No. Io credo che vado a dormire.”, deciso a non farsi rapire dalla mia indomita irrequietezza.
“Bella allora. Buona notte.”
“Notte”
Abbraccio.
A domani.

“Isco! Andiamo a fare colazione a Venaus?”, prendo il telefono e gioco il jolly.
“Ho preso le brioches!”
E contento tramo la mia dipartita.

La sera dopo mi presento a cena dai miei con una partita di calcio di sonno, e una quantità insulsa di peccati di gioventù.
Gli occhi rossi dichiarano colpevolezza.
Gli sbadigli pure.
“Non si guida stanchi”, esercita i propri diritti mia madre.
Improvviso un silenzio che sa tanto di resa.
La notte torno a dormire sul mio letto dopo quasi due settimane di vagabondaggio.
Zanchetta. Sega. E nanna.
So come trattarmi bene.
Sogno di camminare per via Madama Cristina con un carellino con sopra uno zaino. Nello zaino sicuramente portafoglio, chiavi e cellulare. Appena arrivo a casa mi rendo conto del solito pattern: il carellino è vuoto, e stavolta ho perso tutto. Mi agito. Ripercorro la via al contrario, incautamente fiducioso nel in Freud e nella bontà del genere umano. Niente. Nessun segnale. Stavolta non ci sono spagnoli, non c’è Isco, non c’è cacca che tenga.

Dopo tanto allenamento, ero finalmente riuscito nel mio destino: definitivamente perdermi.
Fino a quando una mia amica (nel sogno sfumata), mi restituisce il mio portafoglio: simbolo accessorio della mia ritrovatà identità.

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