“Perché l’energia non stava nel non essere più dipendente”, Silvio mezzo ubriaco ad un me fuso a tre quarti, “la forza stava nell’accorgersi che non avevo bisogno di niente. Non ero riposato perché non mi sballavo più. Ero riposato perché mi sentivo forte… così forte da rinunciare allo sballo.”
Io faticavo ad ascoltare, nonostante volessi. Aaah se volessi.
Volevo scriverla quella frase.
Ma da tempo ormai avevo abbandonato il taccuino a casa.
Figlio del rincorrersi delle mie dipendenze, osservavo Silvio raccontarsi ragazzino innamorato, ma mai casto; sobrio, ma mai noioso; uomo, ma mai, forzatamente, controcorrente.
MA OSSERVO
Per un istante ho pensato che pure fumare una sigaretta fosse cosa buona e giusta.
Da quel balcone ibrido, metà interno cortile, metà una via del centro, ho inalato nicotina e ringraziato l’universo.
Certo, me lo sarei immaginato diverso il momento della redenzione… magari con più incensi e meno Camel Blu, con più tappeti e meno moquette da ufficio, con più pioggia e meno autunno torinese. Ma vallo a capire l’universo. Così impavido e maturo da sbattermi in faccia la triade dell’anima felice: l’amore, la casa, il lavoro.
Incauti nel calpestare un passato fatto di Bacco, Tabacco e Venere; oggi porgiamo lo sguardo verso un dio diverso. Cosparso di tatuaggi e aberrazione verso l’altro diverso da sé: l’anarchico che giudica il bevitore di vini naturali un radical, il radical che giudica l’autista di una Tesla un figlio di papà, il figlio di papà che giudica l’autista di una Tesla un suo dipendente… niente più proletari, niente più borghesi. Nessun nemico quando i nemici sono troppi.
Così mi avvallo nel silenzio di una nuova scoperta: la cura di un possibile futuro.
Non sbandiero più l’entusiasmo di una potenziale novità. Il mondo guarda, a volte per curiosare, altre per distruggere. E non vale la pena correre il rischio dell’ennesimo capannone post-industriale, deceduto sotto le radici di una famelica natura. Meglio mantenere nella custodia salda dell’immaterialità: finché è solo pensiero, nulla potrà scalfirlo. Mi dico. Mi scrivo. Mi penso.
E pensandomi mi ritrovo così al punto fermo della non-esistenza. Ma non entrerò in questo loop vertiginoso e austero. Non oggi che la fiacchezza delle palpebre sconfitte mi ricorda che, in realtà, sono ben più che materia: sono materia stanca, stanca e lenta.
Augusta mi ha strattonato e cullato con le medesime braccia.
Augusta è stata la boccata d’ossigeno del mio conto in banca e l’incoscienza di chi osa fare un qualcosa senza indugiare sul non l’ho mai fatto, non lo so fare.
Augusta è stato un ricordo autunnale del “che fai nella vita?”, “lavoro negli eventi”: e allora notti sempre più piccole, amicizie sempre più lontane, di mangiare bene non se ne parla, e di fare sport solo se si è ossessionati… meglio l’ora lunga degli straordinari e la gola rigata dalle sigarette.
Ho lavorato, ancora una volta, di un lavoro “non mio”. Sì, perché, in fondo, in quasi tutti i lavori che faccio, mi sento… prestato. Non sono un cuoco, eppure cucino.
Non sono un professore, eppure insegno.
Non sono un professionista, eppure proferisco parola dall’autorevolezza della mia girevole sedia nera d’ufficio.
Perché sono gli altri a dirmi chi sono. Ed io eseguo.
Come ramo trainato dalla corrente.
Che poi non ho degustato neanche un vino.
Anzi… premedito il sabotaggio: “odio il vino” dirà la mia t-shirt alla prossima edizione di Augusta, “la fiera dei vini naturali”. Così la spacciamo noi addetti ai lavori.
Stanco della politica dentro ai bicchieri.
Affogato dagli arcaici tecnicismi degli arrampicatori sociali.
Il vino ha perso.
E i sommelier hanno vinto.
Come giocare a calcio senza pallone, ma immersi nelle spiegazioni delle tattiche da lavagna.
Intanto continuo ad innamorarmi di questa tessera del puzzle su cui sono cascato con tutti i piedi. Mi innamoro ogni qual volta gli tocco gli zigomi delineati da una barba pigra e liscia. E non mi accontento. Mi innamoro tutte le volte che il tamburo dà il via alla pizzica e finalmente cala il sipario sulla gobba postura dell’impiegato. Mi innamoro nell’abbraccio rubato, in quello cercato, promesso, stretto, morso, incuneato tra le vertebre dei corpi. Mi innamoro quando Berto miagola perché vuole mangiare ed io, di riflesso, miagolo, perché voglio dormire. Mi innamoro quando penso ad un’occasione speciale per stappare l’ennesima bottiglia di vino (che odio) comprata per dipingermi un bohémien. Mi innamoro se penso alla scrittura. Mi innamoro quando vaneggio sul pranzo della domenica. Sui funghetti del sabato. Sul mercato del sabato. Sul riposo del weekend. E sul sovrapporsi costante e bizzarro dei piani per il fine settimana.
Ormai ho abbandonato la lucidità.
Non oggi.
Non ci capisco più nulla di questa tessera del puzzle su cui sono cascato con tutti i piedi.
Mi limito a cavalcarla come tappeto volante, nell’attesa, forse mai sperata, che si incastri con un suo simile e trovi pace nella noia della continuità.
“Tu ci sai stare nel niente?”, mi aveva chiesto A. prima che, vigliacco, mi addormentassi.
“Ho imparato a riconoscerlo, e ad averne consapevolezza.”, ripensando a quel giorno in Olanda, quando tutto ebbe inizio.
E oggi, che ho tutto, faccio lo stesso di quando stavo forzatamente nel niente.
Non posseggo.
Ma osservo.
E contemplo silenzioso il mondo fiorirmi e sgretolarmi di fianco.





