“Chi non si giudica e non giudica gli altri, non viene giudicato”.
Amico di Salvini, ubriaco.
Cazzo! Salvini, o forse sarebbe meglio chiamarla Alessandra, di questi tempi… Cazzo! Alessandra se n’era uscita con una citazione notevole di qualche suo amico in quel momento ubriaco, in quel momento sdoganato.
Perché un prosecchino alle 11:30, a più di un’ora dal pranzo suona bene. Ancor di più se sulla pista500, lontano dalla gente, dal casino, dal lavoro, dai rumori, dai passi che si muovono ormai stanchi tra i padiglioni, lontano e basta, purché lontano.
Io e Salvini (non riesco a chiamarla Alessandra, non ancora) eravamo scappati per una mezz’oretta. Non si sarebbe potuto fare. Forse non si doveva. Ma ne avevamo bisogno, e l’abbiamo fatto.
“Di nuovo, come meno di un mese fa in Grecia, mi sono sentito dire da alcune persone che si sentono intimorite da me.”, avevo introdotto l’argomento dall’alto dello sgabello alto, che mi faceva sospeso da terra.
“E’ normale Jacopo. Anche a me succede, ed è successo, che la gente me lo dicesse. Abbiamo un ruolo e forse siamo predisposti alle leadership, e questo la gente lo percepisce.”
“Sì ma è la reazione che mi incuriosisce. Tu, nell’anima, come ti senti quando te lo dicono?”
“Io male. Non mi piace.”
Non era quello che volevo sentirmi dire.
“100%?”, ci riprovo.
Magari si è sbagliata.
“Ma certo!”.
Cazzo, nessuno spiraglio.
“Io no. E’ questo che non mi piace: c’è una parte di me che gode nel sentirsi dire che c’è qualcuno che mi teme. Lo sento. Esiste. E non mi piace. E’ l’ego no? Così ho il controllo. Che coglione che sono.”
Seguirono parole di conforto, anzi di circostanza. Parole delle quali non mi sarei fatto nulla se non forse scriverci un pezzo. Anzi neanche quello. Parole che avrebbero potuto essere una lunga virgola, e basta.
“Io giudico Salvini. Giudico me stesso, un sacco. E giudico gli altri. E temo che ci siano persone che lo sentono questo mio giudicare. Così per proiezione, ne sentono anche il peso e per questo lo temono, e mi temono.”
Cazzo Salvini. Il tuo amico aveva ragione
Il mio salone
Si è appena conclusa la trentacinquesima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino.
Anche meno diplomatico Jacopo.
E’ finito il salone, e sono a pezzi. Siamo a pezzi. Tutti.
Più stanco che grato, per ora. Più stanco perché qualcosa più grande di me mi ha travolto negli scorsi giorni. Tanto da non farmi dormire per la tensione, nonostante dormire sarebbe stata l’unica cosa che avrei dovuto fare.
Il salone si è dimostrato ancora una volta un pezzo. Un pezzo di un puzzle la cui immagine finale mi è ancora ignota, ma che piano piano mi si sta rivelando in alcune sue sfaccettature.
Il salone mi piace. Mi piace la gente. Mi piace il lavoro, la tensione, la responsabilità, la squadra, lo spirito di squadra, la voglia di far squadra. Il salone mi piace perché mi da’ un nome. Al salone io esisto, come a quel tavolo a Naphlio di qualche settimana fa.
Al salone si sta insieme, soprattutto si mangia insieme: dalle paste a colazione alla parmigiana di Francesca a pranzo. Dall’aperitivo per terra, davanti al palco, alle cene e le feste per quei pochi che ancora godono del privilegio di ignorare il domani, e le sue conseguenze.
Al salone c’è Salvini. C’è Peppa. C’è Rotella. Villa, Fra, Greta, Marta, Virgi. Un ufficio che sa di salotto e bunker allo stesso tempo. Dove alle volte c’è silenzio e alle volte vuoti di bottiglia. Dove la finestra da’ sulla galleria e sullo scaffale c’è un salame.
Al salone c’è Lorenza. Un altro ufficio e un’altra storia.
Al salone io non so che fare, nessuno in fondo lo sa. E’ questo è bellissimo, perché lascia i cancelli aperti al supporto. Facilita la collaborazione. Alimenta un fuocherello che poi forse, per qualcuno, diventerà amicizia.
Al salone ci si abbraccia, un sacco. E lo si fa appoggiando la testa sulla spalla dell’altr*, che magari ha l’intuizione, e nell’orecchio ti sussurra: “appena stacchiamo andiamo al Coguaro?”.
“Ma dove la trovi la forza?”, pensi.
“Minimo”, rispondi.
Al salone si dorme poco e si lavora tanto. Ma non potrei mai dire troppo. Perché comunque si può scappare su in pista500 e ritagliarsi mezz’oretta per farsi un prosecco, e parlare di ciò di cui si ha paura.
Perché il salone, il mio salone, è nato così. Un anno fa, da un bosco in Olanda, dicendo a quel pazzo di Rotella: “Ale io ho paura.”