Andrea me l’aveva descritta come una vera e propria pratica, la noia.
“I’m practicing being bored”, mi aveva detto, ormai tre anni fa, quando ci conoscemmo ognuno immerso nella lettura dei primi capitoli dei rispettivi nuovi percorsi.
Poi la andai anche a trovare, quando stava a Rotterdam, con sempre quelle parole conficcatemi nel cranio, e dopo aver passato il weekend insieme, come spesso accade, ci perdemmo di vista. Così qualche ricerca, così qualche documentario, in inglese, che a comunicare facevo ancora un po’ di fatica e una visione era sempre una buona soluzione per impratichirsi.
“Practicing being bored”, allenarsi alla noia, mi ripetevo.
Era evidente: quel concetto aveva toccato qualche corda il cui suono era risultato sorprendentemente accordato.
Da lì a poco, quella pratica, l’avrei fatta mia, riducendo al minimo le distrazioni, musica e podcast in primis, e lasciando vuoti sempre più momenti della mia quotidianità.
“Incrementa la creatività”, leggevo e forse fu anche così che iniziai a flirtrare con la scrittura.
Non è il mio
Tre anni dopo, dopo aver sfiorato la possibilità di diventare istruttore di vela, dopo aver sostenuto un paio di colloqui con diversi rifugi sparsi sulle Alpi, dopo aver mandato mail a locali belli da cliente (chi lo sa da dipendente)… tre anni dopo me ne sto seduto su un tavolo alto di un traghetto altissimo a guardare un po’ di cielo e un po’ di mare, in fuga, questa volta lo so, da quella stessa noia.
Dopo l’Umbria a giugno, la Torino di luglio recitava uno spettacolo bellissimo, fatto di montagne, serate, amici… ma il vuoto della sua quotidianità, priva di piani e di intenzioni, la rendeva una tragedia il cui autore doveva essersi perso nell’avvilupparsi della sua stessa trama.
Mi sentivo in colpa nello trascorrere le giornate senza sveglia, con la sola direzione di una corsa al parco, una spesa al mercato e il pranzo cucinato per i miei genitori.
Quel vuoto, quella noia, andava riempito.
Così tra le varie possibilità di lavoro, un annuncio su Instagram: CERCASI CAMERIERE/A AL CAPODOGLIO.
Apro, compilo, invio.
Spero. All’inizio.
Dopo un po’ spero che non mi chiamino.
“O lavori o ti metti uno zaino in spalla e parti!“, il patto con me stesso. E tra lavoro e zaino, Jacopo sa bene cosa preferisce.
Suona il telefono, non lo sento, non rispondo.
Suona di nuovo. Sono distratto.
Richiamo.
“Pronto”
“Pronto. Ciao, Jacopo?”
“Sì…”
“Sono Stefano, del Capodoglio”, cazzo, “ho ricevuto la tua candidatura: che ne dici di una chiacchierata?”
“Oh sicuro!”, mento.
“Domani per le 18?”
“Va bene!”
“Perfetto! A domani Jacopo.”
“Cia…”, aveva già riattaccato.
Al solito: entusiasmo, soldi, timore, rimorso. So già come funziono di fronte alle nuovi decisioni.
La stessa sera risuona il telefono. Di nuovo non me ne accorgo. Richiamo.
“Pronto”
“Ciao Jacopo. Stefano del Capodoglio”
“Sì, ciao Stefano”
“Velocissimo. Non mi ricordo: domani alle 18 o alle 18:30?”
“Tu mi hai detto 18”
“18 allora, perfetto. Ciao Jacopo”
Non saluto: ho imparato la lezione.
Il giorno dopo il colloquio. E poi tre giorni di prova, come cameriere.
I giorni prima dell’esordio mi ritaglio un momento nel pomeriggio per allenarmi a portare il vassoio. Ho il terrore del vassoio. Del vassoio e degli squali, ma degli squali di più.
La notte del terzo giorno di prova, una manciata di minuti prima della chiusura, vado da Mario, il capo: “Ciao Mario, con oggi finisco i miei tre giorni di prova.”
“Sì Jacopo”, mi interrompe, “so cosa vuoi sapere. Allora, ci sei piaciuto molto, quindi, se sei d’accordo, faremmo ancora un paio di serate la prossima settimana e poi partiamo con il contratto. Che ne dici?”
“Volevo parlarti proprio di questo”, restituisco l’interruzione, 1 a 1 palla al centro, “non è il mio. Ci ho provato ma questo lavoro non fa per me. Grazie infinite, ma mi rimetterò in viaggio, ne ho bisogno.”
“Ah, mi dispiace”, rispetta i suoi spazi Mario, mentre annaffia le piante, “se è così, nulla, ti auguro una buona fortuna.”
“Grazie Mario”, saluti. Birrino e saluti.
Che a pensarci poi chissà qual era il vero motivo del rifiuto: andare a letto alle 5 del mattino? La pressione di un lavoro a contatto con i clienti? Gli spunti di argomentazione dell’ambiente lavorativo, tutti figa e droga? La pigrizia? La fuga? L’irrequietezza? Io?
Oggi sono in nave.
Sotto, nel garage del traghetto, c’è Baghera, la mia bici. Mi faccio il giro della Sardegna con lei. Al lavoro ci penserò più avanti, a settembre, in vendemmia.
Ora avevo bisogno di scappare dalla noia. Così parto, da solo… a pedalare centinaia di chilometri in silenzio.
Per trovare poi che cosa se non altra noia creatività?