“Ma mi dico che va bene. Che va bene così.”
E ancora me la ricordo mentre faceva danzare le mani nell’aria: Demiurgo di sensazioni ascoltate con meticolosa attenzione.
C’era anche Sofia a Torino, di passaggio naturalmente, prima di fare ritorno nel suo Mugello, questa volta più traguardo che partenza. C’era Sofia e di lì a poco ci sarebbe stato anche il mio compleanno: ottima scusa per far sì che decidesse di trattenersi un po’ di più in città.
Torino si collocava come l’ultima tappa di un viaggio a ritroso partito dall’Islanda e proseguito poi tra l’Olanda e Milano. E proprio dall’Islanda, ma anche un po’ da altrove, passava il suo racconto: da quello strano rapporto 1 su 40 che aveva mosso in lei, in me, in chiunque ci stesse ascoltando, una sorta di abbraccio, di caldo e confortevole abbraccio.
“Sono stati sette mesi molto duri.”
“Oh finalmente!”, l’avevo confidenzialmente interrotta.
“Sì molto du… aspetta, cosa? Finalmente!?”
“Sì, finalmente! Dai racconti, va sempre tutto bene! Viaggi fighissimi! Gente fighissima! Posti non ti dico…”, avevo bisogno di umanità, e il suo esordio aveva riportato tutti sulla terra.
“Vabbè… sì, sono stati mesi duri perché ho fatto fatica a legare con le persone. Immagina: su quaranta che lavoravamo in struttura, sono riuscita a connettermi solo con una persona. Tra l’altro una sciamana…”, ma questa parte della storia la lasceremo ai facoltosi dell’immaginazione. Poi il tempo di ordinare due negroni in quel posticino dove mi sono innamorato, che Sofia riprese subito a legarsi al racconto, svelando le tessere di un puzzle altrimenti orfano del suo insieme. E così la storia della signora che in Olanda temeva la sua perfezione, la sua durezza nei confronti di sé stessa, quella citazione inconsapevole di Willie Peyote…
Se sei severo con te stesso, lo sei anche con gli altri
Cosa ci direbbe – Fast Animals and Slow Kids feat WIllie Peyote
Ma questo non lo sa nessuno e non vorranno scusarti
Sofia era a Torino, e con lei finalmente anche il sollievo di poter essere normali.
Ce l’ho fatta!
Ormai avevo deciso: sarei andato a dormire presto.
Forse erano state più le circostanze a decidere per me: la combinazione “sera prima del mio compleanno + nessuno dei miei amici lì presenti non appena uscito da lavoro” aveva fatto sì che, dopo aver invano atteso qualche minuto nella speranza di qualche messaggio consolatorio, accendessi la macchina e mi dirigessi verso casa.
Ero stanco. Distrutto. Provato da un’assai intensa settimana a fare il flipper tra lavoro, scuola, casa e poche ore di sonno. Sapevo benissimo qual era il regalo di cui avrei avuto bisogno: dormire. E così feci: raccolsi tutte le mie speranze e le diressi verso il letto di casa.
La testa intanto non smetteva di darsi giudizi, “sei uno sfigato”, “non sai intessere rapporti umani”, “questo è il risultato dei tuoi comportamenti” e scorie varie ed eventuali di troppo facili accuse da rivolgere ad un ragazzo che non avrebbe neanche aspettato la mezzanotte per festeggiare il proprio compleanno. Così, mentre guidavo, non smettevo di cercare appigli per non affossarmi nell’autocommiserazione, finendo naturalmente per trovarne uno nella curiosità di una piacevole ragazza e nel sapore di un adorato Vermouth.
“Gira la macchina”, sempre la mia testa, “e vai a goderti un bel bicchiere di Vermouth da Isola.”
Presto fatto e, col solito talento per il quale vanto una stimabile bacheca di successi, non ci misi più di una manciata di minuti per trovare parcheggio.
Entrai e subito la vidi: quella stessa ragazza alla quale nel pomeriggio, prima di attaccare a lavoro, avevo chiesto se potevo prenotare un tavolo per cinque persone, convinto di aver avuto gente attorno a me per festeggiare insieme.
“Il ragazzo del tavolo da cinque vero?”, mi aveva anticipato lei.
“Sì. Ma sono da solo.”, senza, stranamente, provare il minimo imbarazzo.
“Oh allora siediti pure dove vuoi.”
Alzo lo sguardo. Il tavolino in vetrina non è niente male… mmm forse un po’ freddo però… poi è lontano dalla cassa e tu sai che… la mia testa sapeva qualcosa che io ancora non pensavo di conoscere.
“Mi metto qua.”, e appoggio la giacca allo schienale della sedia vicina, praticamente attaccata, al bancone. “Un bicchiere di Vermouth. Cosa avete?”
“Guarda”, mi fa lei, indicandomi con la mano il ripiano in alto, sopra una sfilza di calici sottosopra.
“Carlo Alberto!”, finalmente il Carlo Alberto. (Quello di questa storia qua, nonché uno dei miei preferiti.), “e poi posso chiederti carta e penna?”, osai.
“Certo!”, quasi si aspettasse tale richiesta. E in un attimo ero seduto, a qualche minuto dallo scoccare del mio compleanno, con un bicchiere di Vermouth e un qualcosa sul quale scrivere.
Come c’ero finito a volermi così tanto bene?
E iniziai, prima a bere poi a scrivere. E solo quando il tempo della scrittura trovava qualche ostacolo tra sé e il proprio ritmo, solo allora alzavo lo sguardo cercando lei, speranzoso che accadesse qualcosa di ancora sfuocato persino nella mia mente.
Mezzanotte, così com’era arrivata, così era già un rimpianto e dopo essermi goduto con una tinta speciale quel sorso di Vermouth che decretava il mio ventinovesimo giro del Sole, finì l’ispirazione, finì la pagina, finì il bisogno di starmene tra me e me.
Una nuova voglia sembrava ora essersi impossessata del mio inquieto stare al mondo: volevo dirglielo, raccontarle di me, del mio essere da solo il giorno del mio compleanno, di come mi vedessi sfigato io e carinissima lei…
Indecisione. Insicurezza. Non è mai il momento giusto. E mentre perdevo un’occasione dopo l’altra per intercettare il suo sguardo, girai il foglio e iniziai a scrivere in serie: “non ce la faccio. non ce la faccio. non ce la faccio. non ce la faccio. …” promettendomi che solo una volta riempiti tutti gli spazi avrei osato rompere il silenzio.
“Ce l’ho fatta!”, recitava l’ultima riga, e proprio in quel momento la vidi riavvicinarsi al bancone.
“Ti posso leggere un cosa?”
All-in.