“Vorrei tornare in California.
Non mi piace questo cielo grigio.”
Foto del visino di Linda imbronciato nel quarto destro del riquadro. Lo spazio restante occupato da uno scorcio di Death Valley.
“Il cielo di Torino non è grigio.
Il cielo di Torino non è cielo.”
Risposta di Jacopo, che un difetto lo deve sempre trovare, e Torino è tanto più bella quando ti manca. Ma oggi, oggi che è inverno, oggi che c’è l’alta pressione, la Torino senza cielo si fa proprio fatica ad amarla.
Il mio collega Simo
Domenica sera si lavora a folate. Si sale piano piano, si raggiunge il picco di comande intorno alle 20:15, e solo quando finalmente alzi lo sguardo e deleghi alla sala l’ultimo piatto, ti accorgi che non c’è più un posto a sedere e che tutti stanno mangiando. L’inerzia gioca, allora, a tuo favore, allontanandoti da un pronosticato crollo fisico, e muovendoti come burattinaio nella rifinitura di quei piccoli dettagli trascurati nella foga del servizio: refill degli ingredienti, pulizia dei piani di lavoro, montaggio dei contenitori dell’asporto…
Domenica sera si lavora a folate, e succede quindi che intorno alle 20:45 ci si ritrovi col collo piegato ad osservare come la curvatura delle scarpe antinfortunistiche non si allinei mai con la squadratura del pavimento lamellato. Allora ripensi alla lezione di igiene e sicurezza alimentare, e non sai se flagellarti per questa tua insana perversione verso la memoria normativa dei documenti, o se approfondire, e gratificandoti, aggiungere un tassello al tuo davanzale di inutili conoscenze.
Domenica sera si lavora a folate, ma proprio quando sembra che il vento si sia stancato di rincorrersi, ecco che inizia la partita della Juve. A me della Juve non me ne frega niente, se non fosse per un’innocente simpatia per parafulmine Max Allegri. A Simo, invece, della Juve gliene frega eccome, e dopo aver ripulito la piastra dai grassi delle carni, lo vedo appoggiarsi, chissà magari con minuziosa scaramanzia, sulla parete del frigo, pronto a trattenere gioie e imprecazioni mal volute in presenza di clienti.
Simo è un collega, un ragazzo che parla tanto e che lo fa altrettanto velocemente. Sembriamo avere valori diametralmente lontani, che nello spazio angusto della cucina devono trovare il modo di sopportarsi. Ci abbiamo messo del tempo, ma forse ce l’abbiamo fatta. Ora andiamo d’accordo, intervallando silenzi e parole sparate a raffica, forse consapevoli che più che un dialogo, la nostra è una partita a tennis, dove di pallina ce n’è una sola, ma di racchette siamo forniti entrambi.
Così se la domenica sera si lavora a folate, capita anche di fermarsi ogni tanto, risistemarsi cuffia e grembiule e, finalmente, guardarsi attorno: lo tzatziki lì dove deve stare, le pite sulla piastra, la bobina di carta da cucina che ha ancora dei fogli da strappare e, nella panoramica orizzontale di questa vista chiusa e limitata da mensole e muri, Simo, appoggiato alla porta del frigo, che nasconde paonazzo un pianto.
“Che giornata di merda!”, aveva risposto Simo con la solita predisposizione al lato oscuro della forza al mio canonico “come stai?” prima di iniziare il turno: “oggi hanno ricoverato un mio amico.”
La domenica si lavora a folate, e una di queste stava portando via l’amico di Simo. Anche lui umano, e seppur distante, vicino nel mio onesto abbraccio indeciso.