SONO ANDATO NEL MUGELLO

da | Feb 20, 2024 | Febbraio 2024

“Come stai?”
“Piano piano”, le parole di El Mehdi, il signore che vende penne e fazzoletti davanti alla scuola, con il quale ogni giorno sono ben contento di scambiare due chiacchiere, e talvolta un abbraccio.

“Piano piano”, e ogni volta ripenso a questa strana risposta.
Forse perché le ore passano lente seduti al bordo della strada, eppure un “bene” sarebbe molto più semplice, banale sì, ma semplice.

E non c’è mattina in cui El Mehdi non lo dica, talvolta ringraziandomi così, senza un apparente motivo.

Io ancora non lo so il perché di quel “piano piano”, ma sono sicuro che un giorno sarò io a ringraziare lui.

Sono andato nel Mugello. Andato e tornato in fretta e furia. Avevo colto al balzo la gita di classe (nostalgica retorica) al Taste di Firenze, per prendermi un paio di giorni da lavoro e anticipare la partenza. Era quasi tutto programmato, per una volta: sarei partito sabato mattina col treno delle 8.30, un paio di giorni col solito vecchio La Julienne, e lunedì ritrovo con la scuola a Firenze, per la fiera e il ritorno in pompa magna.

“L’uscita a Firenze è annullata!”, un freddo messaggio sulla chat della scuola.
E adesso?
Già sapevo la risposta: avrei passato un giorno in più con Lag, facile. Anzi, meglio, ma ad una condizione: sul treno per Firenze Santa Maria Novella avrei studiato l’unica materia che per ora non mi aveva fatto accapponare la pelle: agronomia.

Stai crescendo Jacopo. Quasi ti organizzi i viaggi, e in più ti imponi anche di studiare. Chi sei? Cosa stai diventando?

Il mio non diagnosticato deficit dell’attenzione sguazzava su quel vagone pieno di gente stranamente chiacchierona per essere un sabato mattina di febbraio, ma la mia perseveranza, o qualche altra forza della quale ancora non conosco l’origine, mi aveva condotto fino alla fine delle slide: fino alla temutissimo vento e i suoi effetti sulle coltivazioni ieeeeee 🌾

La stazione dal nome più lungo e principesco d’Italia era lì, pronta ad accogliermi col suo cielo che solo Torino sembra non avere. Una signora che poco sapeva l’italiano si disperava per aver perso il treno per Faenza: l’ho accompagnata al binario giusto, facendo aspettare La Julienne ancora un po’.

Mentre camminavo fianco ai binari, cercavo il mio riflesso sulle vetrine degli uffici di polizia o del deposito bagagli: mi sentivo un bono, con il pile e il cappellino del mio babbo forse trent’enne.

Dopo la discesa noto Lag in una macchina diversa. Noto Lag in una pelle diversa. Noto Lag con la stessa contentezza di sempre. Salgo, poso lo zaino, “guido io?”, scendo, ci abbracciamo, “cazzo, sei super magro!”, rimonto dal lato guidatore, “dove andiamo?”, “addritto“, “bello sei Lag!”

Dico sempre che non mi piace visitare i posti, preferisco viverli. Non mi dice nulla infatti lo stare in una città qualche giorno a guardare tutto ciò che “si dice” abbia da offrirmi, non ho lo sguardo veloce in grado di farsi rapire dai luoghi. Anzi, forse non sono proprio i luoghi che mi rapiscono, bensì i ritmi che li animano: mi lascio attrarre dagli accenti, gli orari, i significati nascosti dietro gesti che esistono nella sola sfera locale, ed è per questo forse, che non sono in grado di visitare. Ho bisogno di tempo.
Ma c’è un gesto che, in qualche modo, sembrerebbe accelerare il processo. Un gesto che, se compiuto, mi fa sentire più cittadino che turista. Quel gesto è guidare una macchina. Il muoversi per le strade, tra le imprecazioni dei lavoratori in ritardo e i sorpassi azzardati dei genitori col Doblò carico di figli; il vedere cartelli dalle sfumature di colori diversi e semafori con i quali non si ha confidenza sui tempi; lo scoprire nomi di vie svuotate da qualsiasi aggancio a ricordi o nostalgie… tutto questo, per qualche minuto, mi ha fatto sentire meno torinese e più fiorentino.

E dopo aver fantasticato sulla mia nuova identità, di fianco a noi un bel parcheggio lung’Arno. Mi incastro, paghiamo la sosta e dritti alla trattoria La Casalinga, sotto consiglio del buon Landi, alias Giulio-con-la-I.

Il tempo del pranzo è tempo di confidenze: tante quelle di Lag, così instabile nel voler capire che fare nel futuro prossimo. E tante anche quelle inconsapevoli che, sempre Lag, mi stava mettendo di fronte, semplicemente ordinando delle bruschette al pomodoro e rifiutando del vino.

Mancava un ponte. Un ponte nuovo, fino ad allora assente, ma che ormai stava diventando imprescindibile nel mio intessere relazioni: il cibo, il vino, l’enogastronomia.

Sono mesi ormai che studio cibo, che lavoro col cibo, che riempio la quasi totalità del mio tempo libero col cibo. Partecipo a degustazioni, organizzo pranzi in famiglia, scelgo dove fare aperitivo in base alla selezione di Vermouth… sono appassionato e mi piace quando, a partire dalla stessa passione, si crea condivisione.

Io e Lag però avevamo legato mediante un altro linguaggio: la nostra amicizia era figlia della vulnerabilità e il ponte che ci metteva in contatto, così solido e imperituro, aveva basamenti su parole di amore, sentimenti, e dolore. Entrambi appena lasciati dalle rispettive ragazze, avevamo trovato nell’altro un compagno con il quale parlare la stessa lingua. Così in quella trattoria, con la curiosità negli occhi di chi, in errore, si aspettava di assaggiare, commentare, scoprire ricette e segreti dell’impareggiabile cucina toscana, io, Jacopo, capii che dall’altra parte del ponte non ci sarebbe stato nessuno, ma che soprattutto, andava benissimo così.

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