“La verità è che tu hai la capacità di attrarre, le persone sono attratte da te Jacopo. Vogliono starti vicino, conoscerti, sentire quello che hai da dire… solo che tu le respingi. Loro sono attratte e tu le allontani, come se non le volessi intorno.”
Ascoltavo mentre sentivo le lame di quelle parole squarciarmi il petto. Il fiato, tagliato, faceva fatica a portare a termine dei lunghi e ricercati affanni. Sonia aveva talento nel rendere pietrolina lo scoglio insormontabile dell’imbarazzo e girata la sedia, ci eravamo trovati l’uno di fronte all’altra: lei a tradurre in parole ciò che i suoi occhi avevano osservato durante quei mesi tra i banchi, io a crollare alla vista di quell’inaspettata verità.
Perché abbastanza?
Negli ultimi giorni mi sono sentito piuttosto solo: ho provato tristezza e lo ho dato il nome di “solitudine”.
Il pranzo tra me e me, sul balcone, a Pasquetta, deve aver messo in moto un meccanismo che, evidentemente, non poteva non passare dallo stato di consapevolezza.
I giorni successivi infatti, un’orda di fallimento e vittimismo sembrava fortemente intenzionata a fare a sportellate pur di accaparrarsi un posto nella mia già tanto occupata testolina.
“Sono un fallito.”, “Mi sento solo.”, la colonna sonora in loop delle mie distrazioni.
Aspettavo un messaggio, qualcun* che mi regalasse attenzioni, e mentre invano accendevo lo schermo del cellulare senza che nessuna notifica tamponasse la mia inquietudine, costruivo un altare di spiegazioni, tanto lucide quanto architettate, per provare a giustificarmi.
Poi una pausa a lezione trascorsa ad ascoltare Ludovico Einaudi in cuffia, con gli occhi ancora timidi, ma bisognosi di esplodere: “l’ho voluto io tutto questo.”
“Allora? Perché abbastanza?”, incalzò Maurino, riferendosi al mio messaggio di risposta ad un inaspettato come stai.
“Ma niente…”, e perdo lo sguardo tra la gente in coda per un birrino, “… è che negli ultimi giorni mi sono sentito un po’ solo.”
Campione iridato di biathlon: elusione e minimizzazione.
“Bhè! Dì!”, con quella veracità/voracità che tanto gli invidio.
“È che mi imbarazza parlare di me.”
“Forse allora inizia da qua per non essere solo, no? Raccontati. Parla.”
Cazzo, già uno a zero senza manco aver toccato il pallone. Sarebbe potuta benissimo finire lì: di materiale per le mie scorribande interiori ne avrei avuto già a sufficienza.
“Maurì”, vuoto il sacco, “sai che c’è? che mi sento essere sempre un invitato e non un incluso: la gente mi invita alle feste, agli eventi, a bere una birra… ma è sempre come se fossi un’appendice. Gli altri si organizzano e POI mi chiedono se voglio andare. Mi manca l’appartenza Maurì.”
Dalla sua direzione, nessuno stupore. Era tutto al contrario. Io in piedi all’interno di un cortile di un centro culturale piacevole ai miei occhi, e lui seduto su una panchina di un centro sociale socialmente inaccettabile. Da quella sua posizione comoda, distesa, alleggerita, riusciva comunque a guardarmi dall’alto.
“Ci sta Jacopì! Ti capisco. Mi verrebbe da dire che forse però è proprio questa l’immagine che dai di te, no? Quella di essere un po’ un viandante.”
“Eccerto Maurì. Sono d’accordo! Ma io viandante non sono più. Ora sono fermo, vivo qua, studio qua, lavoro qua… solo che non so come si fa. Penso sempre che l’altro sia meglio, che il nuovo sia più attraente; così continuo a viaggiare stando fermo, lasciandomi dietro relazioni per l’incapacità di riuscirle a coltivare.”
A rompere lo stallo una voce, fino a quel momento attenta ad ascoltare: “Tu hai provato a dirglielo?”, aveva esordito Valentina, un’amica di Maurino, con l’incredibile talento di sorridere di fronte ai propri non lo so.
Ho provato a dirglielo?
“No, forse no.”