Quello nella foto sono io esattamente 10 anni fa.
È stato Facebook a ripropormela mentre, una mattina qualunque, mi stavo contorcendo tra il pendolo di una colazione dolce o una salata.
Ero insicuro, meno di quanto non lo sia adesso.
Ero incerto, più di quanto non lo sia adesso.
Bevevo, più per ruolo che per gioco.
Avevo un’idea sicura di futuro.
Non sapevo un cazzo.
e proprio per questo:
avevo un’idea sicura di futuro.
DOMENICA BESTIALE
Avevo tre piani per questa domenica, anzi tre e mezzo: andare in montagna a quota 3000mt, naturalmente da solo, naturalmente troppo presto la mattina; farmi un funghetto, un regalo di un amico custodito sottovuoto in un qualche cassetto ai piedi della scrivania; godere dell’intimità di un letto condiviso con un’altra persona, niente di più sbagliato in questa prima domenica senza pioggia degli ultimi mesi; riprendermi dai postumi di un rave (il “mezzo” dei tre piani e mezzo).
Ho fatto tutt’altro, come sono solito fare quando anziché pianificare, accumulo, mettendo insieme una serie più o meno lunghe di possibilità buone solo a tenere a bada la mia instabile paura di far niente.
Non ci so più stare senza far niente: “ed è tutta colpa della città”, mi dico.
Anzi, “è tutta colpa di Torino”, che tanto poverina è ormai abituata a farmi da scudo contro tutte quelle responsabilità che ancora fatico a prendermi. Così penso già al dopo: a quando finirò sta maledettissima scuola, e in cambio riavrò indietro tutto il mio tempo libero.
Una partenza per un posto lontano e addio solite vecchie inquietudini dell’anima: è un periodo di grandi distrazioni, poi una comparsata sul ring e dopo tre colpi sono già al tappeto.
“Ci sono delle forti incongruenze nei tuoi comportamenti. La gente poi si chiede: “cosa vuole questo?”, gancio destro.
“Forse sei troppo focalizzato su di te, e la tua comunicazione non tiene conto degli altri, di quello che gli altri sentono o possono sentire.”, montante al mento.
“Non pensi che facendo così la gente pensa che sei tu che non vuoi starle vicino?”, diretto al volto.
Pensavo di essere andato a fare pranzo al parco delle Porte Palatine e invece mi sono ritrovato steso a terra, KO, col suono della campanella a decretare la fine dell’incontro: SolitaVecchiaVerità stravince contro me,medesimo,ego.
Così anche l’ennesima persona incontrata, conosciuta e ammirata di quest’incessante catena produttiva che è la vita, rischia di diventare figurina nell’album delle mie incapacità relazionali.
A. è lì, sdraiato sul telo mare viola in pile, mentre onesto, ascolta il mio vomitargli a stento perché e percome siamo finiti così. E mentre provo a rendere il contenuto meno patetico di quanto il mio essere vittima non lo percepisca, riconosco del disagio nello spostare su di me le attenzioni del nostro parlare.
“Non vedi? Anche adesso: sento di essere subdolo, di stare spostando su delle mie debolezze il focus del discorso, così magari ti faccio pena e ancora una volta sarei riuscito ad ottenere attenzioni.”, toccandomi la parte destra del cervello, come se fosse lei la colpevole di tutto questo.
Mi sento a disagio.
Fisso il tetto della casa all’angolo opposto di fronte a me.
A. costruisce del silenzio, per poi cavalcarlo con un morbidissimo “mi dispiace che tu ti senta così”.
Prima di salutarci gli chiedo un abbraccio, poi Guccini mi tiene compagnia nel tragitto ring-casa.
“Sempre le solite cose”, partorisce il mio rimuginarci sopra, “forse stai meglio da solo: per quanto sia faticoso, per quanto a tratti non ti piaccia, per quanto sia ricco di vuoti da riempire… almeno, forse, non fa male.”