SCENEGGIATURA DI UNA CONVERSAZIONE TELEFONICA DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO
INT. SALOTTO, METÀ POMERIGGIO, DOMENICA DI PASQUA
(Jacopo è da solo. Mangia un’insalata di songino, pomodori e uova sode. È in videochiamata con Lag, dall’altra parte del mondo – un ristorante vegano a Bali.)
LAG
(parlando con emozione dei suoi fratelli conosciuti in Australia)
L’amore è Rivoluzione, la Rivoluzione è Movimento, il Movimento è Vita.
Jacopo lo ascolta. C’è in lui un’urgenza che non trova parole. Vorrebbe chiedergli “perché?”. Perché l’amore è rivoluzione? Perché lui non riesce a farla, questa rivoluzione? Ma resta in silenzio. E quando Lag termina di raccontarsi, implode:
JACOPO
(con un tono di voce sommesso ma controllato)
Lag, te lo dico col cuore in mano: io ho paura di non essere stato eletto per l’amore.
Distoglie lo sguardo dallo schermo. Non riesce a sostenerlo.
Dall’altra parte del mondo, un abbraccio fraterno si muove.
NO TENGO ganas
Pasqua mi separa dal mondo.
Mi sono circondato di silenzio, mentre là fuori i miei amici sono a Gandia; mentre i miei amici sono allo Spook; mentre i miei amici sono a grigliare, e la mia famiglia, immagino, pure.
Io ho scelto di starmene tranquillo a prendere il sole, per rimettere al centro il mio benessere fisico e mentale.
Niente alcool.
Niente tabacco.
Niente irritazione isterica dell’anima, abituata a confrontarsi con gli attimi di attenzione altrui.
Trascorro questi giorni nello spazio sicuro di azioni lente e ricercate: faccio la parmigiana di melanzane, faccio il pane, mi faccio un bagno caldo, salgo in terrazza a fare sport e prendere il sole, leggo la sessualità spinta di una sedicente vegetariana e dell’umano – troppo umano – cognato, pulisco casa, inizio un documentario sugli animali (proprio come quando ero piccolo) e mi addormento prima che finisca (proprio come quando ero piccolo).

Buongiorno Figlio Buona Pasqua ❤
Uè buongiorno! Tanti auguri anche a voi! Pásatelo bien
Cosa fai oggi?
Mi rilasso, faccio sport, poi cucino un po’ e prendo il sole
E percepisco, dal rapido interscambio di messaggi con mia mamma, una sorta di preoccupazione genitoriale verso questo fare lontano dai riflettori di una smisurata socialità. Es que no tengo ganas, mi rispondo al mio stesso “perchè?”.
No tengo ganas di sprecare parole sul nulla.
No tengo ganas di condividere il silenzio.
No tengo ganas di viaggiare da una birra a un’altra, da un ballo a un altro, dal vuoto di un bacio a un altro.
Osservo le mie mani raccontare meglio della mia bocca, tutto ciò che di esprimibile fuoriesce dal corpo: dalla mia ultima degustazione qui a Valencia alla condivisione di un tramonto con Sarah, da poco tornata dal suo finde de fuego, riscopro nella gestualità una cura autentica verso l’espressività. Le dita, come drappi della lunga gonna tennure, si lasciano guidare dal movimento morbido e continuo dei polsi, che disgregano ciascuna parola in un suono prima, e in una vibrazione poi. Ogni gesto è il ricamo che intesse le fila del mondo, tenuto insieme dalla storia millenaria dei racconti, e dalla dimenticata credenza di universalità.
La realtà là fuori mi spaventa.
Non nella sua brutalità.
Ma nella sua indifferenza.
Anita mi dice che questo richiudermi in me stesso è un atto protettivo nei confronti della mia persona. Io, con gli occhi lucidi, mi osservo immobile tra la negazione della realtà e il tepore del mio piccolo nido.
“Mi fa male pensare di non poter essere vulnerabile per il pericolo di essere ferito”, le rispondo dal baricentro della mia dualità.
“Che cosa intendi per vulnerabilità, Jacopo?”
“La vulnerabilità…”, e sollevo lo sguardo in alto per afferrare le parole giuste, “… la vulnerabilità è una figata!”
“Una figata?”, Anita persona, prima che psicologa.
“Sì. Poter essere vulnerabili è bellissimo. Se con essere vulnerabili intendiamo l’essere esposti a un rischio, il poterlo essere significa potersi dimenticare delle armature, e poter finalmente deporre le armi. Significa che possiamo esprimere i nostri bisogni liberamente, senza il rischio, o la paura, di essere giudicati/respinti/murati.”
Anita ascoltava.
Io… io pure.
“L’altro giorno, in balcone, quando mi sono richiuso in me stesso, l’ho fatto perché avevo paura che gli altri avrebbero potuto dirmi ‘eh ma Jacopo, che pesante che sei… goditela”, e cose così.”
“È questo che intendo quando dico che il tuo ritornare a te è un atto protettivo nei tuoi confronti: non vuoi esporti al rischio di essere ferito, e Jacopo, credimi, va benissimo.”
“Sì, però ciò che non esprimo poi mi rimbomba dentro. E inizio a costruirne significati che straripano nella ricerca di un colpevole, nel gioco della vittima, nella ricerca di attenzioni, nella mania di controllo, nel solito e inconcludente ego…“
“A volte, il mondo là fuori, può ferire.”, con la delicatezza di chi sa riconoscere la potenzialità di un giudizio.
“Anita, i miei amici, quelli veri, di fronte alla vulnerabilità dicono grazie.”
Qualche istante per digerire.
“Pensa ad Achille…”, e la meraviglia della mitologia mi aveva preso per mano verso luoghi fatti di incoscienti valori e intraducibili emozioni.
“Qué más?”, le avrei poi chiesto quando l’assenza di parole si faceva imbarazzante.
“Niente Jacopo, niente.”