“Es que no es casualidad. Es causalidad.”
E prima di abbracciare Rosa, io e Lucas ci saremo guardati pronunciando con gli occhi quella parola che la notte precedente, sulla terrazza, aveva segnato un prima e un dopo del nostro assai recente esserci incontrati.
“La vibra”, mi fa lui, con una calda pacca sulla spalla.
“La vibra”, io, completando quel suo movimento in un abbraccio.
Poi un altro.
E un altro ancora.
Valencia che pian piano andava implodendo nell’intensità di quegli ultimi momenti di contatto.
“Nos te esperamos. Tu familia gastronomica.”, mi fa Monica all’orecchio.
E accumulo, senza rendermene conto, tutto l’amore coltivato in quei 5 mesi di sole, persone e biciclette.
SINCRONICITÀ
Mi è stata regalata una poesia.
Io all’inizio non capivo.
Ascoltavo ma non capivo.
Mettevo insieme immagini con la speranza che il mio senso fosse lo stesso di un poeta vissuto a chilomentri di distanza, ad anni di distanza.
Mettevo insieme immagini con la speranza che il mio senso fosse lo stesso di quello di Fernando Pessoa.
Ho lasciato che fossero i suoni a prendermi per mano. Che fosse la voce di un ragazzo appena conosciuto la mia guida.
Io bendato, e la musica di parole nuove a farsi vento.
Il lato più intimo del bancone del bar si era trasformato nel teatro di una rappresentazione improvvisata, e la poesia tagliata a pezzi da clienti inconsapevoli di una delle altre infinite realtà possibili.
Con la poesia mi sono state regalate delle lacrime, quando il giorno dopo sarebbe stata la mia lingua, la mia voce, il mio essere vela, barca, vento e mare a sovrapporre il mio senso a quello di un poeta vissuto a chilomentri di distanza, ad anni di distanza. Recito a me stesso quei versi con la voce graffiata dal fumo, e talvolta inciampo nel disallineamento delle due velocità: quella della testa, che vuole capire, e quella del cuore, che…
Mi alzo in piedi, mi guardo allo specchio, e nella timidezza della prima lacrima che coraggiosa abbandona il porto del proprio occhio, cerco il volto di mia madre.
Cosa trovo però, è solo un ricordo e la suggestione di un abbraccio tenuto insieme dalla sola unanimità del respiro.
I corpi che si sciolgono. Le braccia che si fondono nella schiena dell’altro. Le gambe già tronchi di alberi accarezzati da un soffio gentile. E il tempo che sembra disgregarsi in uno degli infiniti punti che compongono una retta.
Esco in balcone con la voglia di una sigaretta, ma le mie dita scelgono una penna. Così inauguro su carta i titoli di coda di ringraziamenti, fotografie, ricordi di questi 5 mesi a Valencia.
“Allora come ti senti? Sei pronto per partire?”, mi domanda Rosita, entrando con cura in quello spazio di silenzio e intimità.
Interrompo la scrittura ormai già prossima alla resa.
Appoggio la penna sul quaderno. E lo stesso faccio con la schiena sulla parete.
Respiro.
Stiro la fossetta della guancia destra come se, pesce, fossi stato pescato dalla giusta domanda.
E prendo tempo allontanando lo sguardo sui tetti senza forma della città.
“Mi sento…”, davvero mi mancavano le parole: “mi sento bene, direi”, sapendo che la vera risposta sarebbe stata un pieno silenzio.
Ormai intrapresa la strada della verbalizzazione, articolo, provando a rimodellare quella amorfa situazione di stasi: “mi sento come se stessi vincendo 1-0 a 10 minuti dalla fine. Non vedo l’ora che finisca. Ma non perché non stia andando bene, anzi, sto vincendo 1-0. È che da un lato ho paura, in questi ultimi giorni, che qualcosa possa rovinare quanto di buono sia successo e si sia creato in questi mesi; e dall’altro ho paura di conoscere altro, che desti in me curiosità e fascinazione, che però non potrei approfondire. Per questo mi sento esattamente dove devo essere: alla fine di un qualcosa. La fine organica e moderata di un qualcosa. Questa Valencia, anzi questo modo di vivere Valencia, doveva essere una parentesi, e ora ci siamo, è ora di chiuderla.”
Rosita dava tre quarti di corpo alla città. Seduta e sorridente, ascoltava senza invadere quello spazio di convidisione. Poi una parola, una sola, ed io che inizio a viaggiare sui nessi etimologici e simbolici di quel suono.
“Sincronicità”, la sua bomba lanciata sul mio mondo bisognoso di una ripulita.
Sincronicità, e quella fossetta della guancia destra che già si era rotta in un sorriso.