Sono intrappolato nella stazione di Catania C.le: “Il treno 12976, delle 13:21, diretto a Taormina, è stato cancellato.”, annuncia cinico l’altroparlante. Dov’è finita la tendenza tutta italiana di addolcire il veleno?
Aspetto che un treno mi porti a Giarre-Riposto.
Aspetto che Giuliano mi dica se da lì, dovrò poi prendermi un taxi.
Aspetto le parole giuste per poter catturare agosto tra le righe.
La stazione di Catania C.le si affaccia da un lato su una torrida rotonda tutta asfalto e rumori, e dall’altro sul mare: su un dritto e piatto mare. Aspettare un treno vista mare è un privilegio da surfisti australiani; così mi travesto: occhiali da sole per camuffare la mia innocua identità, corpo largo che padroneggia sulla panchina, capello biondo sempre bagnato e crespo di sole, canottiera dalla quale spuntano bicipiti dopati, piedi scalzi, e sotto i piedi uno skate.
Lontano un ragazzo attraversa i binari non curante di un mondo che lo osserva e di una mente che lo plasma.
Tra la stazione e il mare, degli scogli celano una storia.
Un nuraghe di cemento, pittato da artisti squattrinati di un ego tossico e solido, capeggia sul nascondiglio del pirata australiano.
Catania C.le è diventata Catania Europa.
L’Italia s’è desta nel suo capriccio di stereotipi troppo facili.
Nelle cuffie “il Mediterraneo sferza le coste indomito”.
Quando la prima granita? E quando soprattutto la seconda?
Un muro di nero s’è frapposto fra me e il dritto e piatto mare.
Europa è già Picanello e le troppe parole di questo rap intellettuale mi svuotano dalle mie.
Ho scelto.
Vorrei guardare fuori.
Ascoltare storie già scritte e sognare un biondo scalzo prendersi cura di granchi arancioni al di là degli scogli di Catania C.le.
Al di là dell’onorico…
L’OPERA FESTIVAL
Al di là dell’onirico, tutta Milo aspetto la pioggia.
“È un’estate come l’estate dovrebbe essere”, recita la voce interiorizzata di un vecchio francobollo siciliano.
Il contrasto troppo marcato tra i giovani del paese e il resto del mondo si cicatrizza grazie ad un accento ancora sanguigno per essere messo in discussione da dei volatili valori. C’è un buco profondo e nero al centro di questa piana chiamata Piazza Belvedere, un buco fatto di visioni che appartengono all’al di là: al di là del mare, al di là dello stretto, al di là di una serie di invisibili sovrastrutture che hanno incelofanato il tempo. A questi giovani escursionisti della ribellione, mi viene da chiedere: “ma voi come fate?”
Con garbo raro e nutriente, quelli stessi giovani si affacciano sul medesimo interrogativo.
“Posso, o sei nel tuo flusso creativo?”, mi chiede Vittoria esaudendo il mio desiderio di confronto.
“Certo, anzi…”, dice la penna ferma, in cerca di risposte.
Ma voi come fate? rimane muto l’interrogativo di fronte ai preamboli di una conoscenza. Perché la consuetudine a creare un terreno fertile viene sempre prima del frutto, e via dunque di “chi sei?”, “come stai?”, “cosa fai?”… prima ci si fida, poi ci si confida. E se il tempo scarseggia, la paura straborda, la pioggia, come recita il vecchio francobollo, arriva… beh non rimane altro che il vuoto rammarico di un acerbo tentativo.
Come facciano, questi giovani rivoluzionari, io ancora non lo so.
Resta viva però la mia prima meraviglia di un vulcano che erutta. Lei che è donna: “madre? sorella? amica?”, avevo chiesto ad Adriana prima ancora di ricordarmi il suo nome.
“Donna, l’Etna è donna!“, mi ha risposto lei con la lava negli occhi.
E capisco ora quella voglia di leggero ovest che rapisce gli occhi ad ogni sguardo furtivo che si affaccia verso il vulcano.
Finché c’è lei, il giorno sarà giorno, e la notte notte.
Ode alla normalità, e al suo essere timida e necessaria.
Intanto i ritmi si fanno sempre più serrati: i boschi richiamano le viscere ad una danza ebbra e crepuscolare, la gente si fa porzione di desiderio e pozzo di conforto, mentre la notte ravviva le ombre in potenza del giorno.
D’altronde finché c’è lei…
L’Opera Festival è quel sentimento nuevo che mi tiene alta la vita.
Un cous-cous di ingredienti buoni da soli, ma migliori se accompagnati.
“Quella che prima era Ionia, ora è Giarre-Riposto”: mi insegna Saro dal tavolo di fianco, “Giarre sopra la ferrovia, e Riposto più giù a mare. E lo sai chi è nato qui?”
Aspetto in silenzio, mentre inforco una polpetta di carne di cavallo.
“Battiato. Il Maestro. Che poi s’è preso una casa a Milo.”
“Milo? Io sto andando là”, butto benzina sul fuoco della conversazione.
“Pensa che una volta stavo lavorando a casa del Maestro”
“L’ha conosciuto?”, lo interrompo io.
Saro mi fa un cenno con la testa prima di continuare: “E ti dicevo: stavo lavorando a casa sua quando la sua domestica bussò alla sua porta per chiedergli se volesse un caffé. Ci fermammo tutti e aspettammo qualche secondo prima di intercettare la sua voce. Battiato aprì appena la porta e, dopo una lunga riflessione, disse: “ci devo pensare”, prima di ritirarsi nuovamente nello studio a meditare.”
E poi Fiorello, l’arcigay, la Juventus… Riposto mi accoglie, ma io è a Milo che devo andare.
Giuliano mi traghetta introducendomi al lavoro.
Il professor Sessa fa il resto offrendomi la sua casa e il suo giardino.
I quattro giorni di festival li passo in incognita, con le orecchie curiose, la bocca affamata, e l’abito di un assistente tecnico con un conto aperto con la dea bendata.
“Come sono fortunato”, sussurro alle bentornate stelle, ripensando alla moltitudine di storie che avuto il piacere di abbracciare. Dami studia gli animali, Alfio insegna ju-jitsu brasiliano, Vittoria scrive, Adriana si commuove con l’Etna, Marco capeggia responsabilmente, Francesco è giovane, Simone mi sfugge sempre, Vanni indossa la maglia della Juve, Martina mi regala la mia prima eruzione. Un mosaico sfacciato di vite che ritma al tempo della techno dei boschi.
E se durante il giorno, i corpi si muovono lenti e le musiche languiscono snodate; la notte si appella alla nostra animalità da rave, trasformandoci in licantropi affamati di Luna. Poi sfatti, cucinati, graffiati da una suicida bestialità, rimettiamo in moto la macchina. 4 giorni. Poi tutto si cancellerà. Tutto tranne il suono.
“ogni atto di creazione, è un atto sonoro”, avrei rubato al vulcanologo ospite dell’evento di Etnasonica.
A Milo s’è fatto un bel casino.
A Milo s’è creato qualcosa.
fino a quando si stacca la spina.
Simone mi bacia all’improvviso.
non c’è più segnale.
e l’Etna non sarà mai più una cartolina.