TU NON LI SENTI I SOLFITI?

by | Sep 8, 2025 | Settembre 2025

“Ja, ce l’hai un preservativo?”, incappo in una voce del sud proveniente dalla stanza dei Pastis.
Ci metto un attimo per mettere a fuoco; sorrido e annuisco.
“Embè?”, ghigno avvicinandomi al suo letto.
“Eeeh è successo”, ormai rassegnata all’ennesima cottarella estiva.
“Ma aspe’, con chi?”, re degli ingenui, aspirante dittatore.
“Eh”
“Nooooo vabbè”, ballando tutte le musiche del mio corpo.
“La vendemmia è così, Ja.” sicura nel lasciarsi andare, “Tu non li senti i solfiti? Sono loro che danno st’effetto.” avrebbe poi aggiunto, prima che comparisse Benjamin: l’Adone con il quale si nascondeva tra le vigne.

Annuisco, prima di imbarazzarmi alla vista di lui in mutande e bicipiti.
Monto un occhiolino con le ultime palpebre rimaste.
Bella per i solfiti, penso, mentre esco di scena facendo attenzione a non dare le spalle alla regina.

POUILLY-FUISSÈ JE T’AIME

Imposto la sveglia alle 6:30 senza concedermi nessun diritto di replica: i bagni sono pochi e la possibilità di commettere un errore è altissima.
Scodella di caffè, pane, burro e miele: mi travesto da nutrizionista imbottendomi di energia in vista della lunga giornata tra i filari.
Quello che rimane è un tempo aggrovigliato tra i passaggi, le corse, le colazioni, le sigarette…: i rituali vivi della mattina ai quali gli altri vendemmiatori/vendemmiatrici affidano la propria sopravvivenza.
“On voiture!”, rompe l’atmosfera ovattata un grido di voce maschile.
“On voiture!”, “On voiture!”, “On voiture!”: ne seguiranno poi altri dalle differenti tonalità.
Alle 7:30 siamo sul furgone: 3 davanti e il resto della squadra nel salotto arredato con due panche nel vano posteriore. Sulle pareti metalliche della vettura rimbalzano appesi marsupi, antipioggia, guanti, dita prudenti e attente alle discutibili abilità del guidatore. Il portellone laterale aperto ci schiaffa in faccia una sterminata distesa di filari, mentre l’aria fresca del mattino ci impone silenzio e ripensamenti.

Alla vista della prima uva, la schiena scricchiola.
Come ci arrivo a fine giornata?, pensa in tutte le lingue del mondo la testa di ognuno.
Poi il polso si scalda e la presa sui grappoli si fa sempre più istintiva e meno ragionata: ci sono degli occhi sulle mani che solo l’ossessiva ripetitività può destare.
A Pouilly ci sono tre vini e un’uva soltanto: Pouilly-Fuissé, Saint-Véran e Mâcon si contendono chili e chili di rognoso e inerpicante Chardonnay. I grappoli, spesso piccoli e nodosi, costringono le dita a contorsionistici giochi di prestigio, mentre tra i filari suoni, presto diventati familiari, scandiscono il tempo come le vecchie campane di paese.
Allez on vide!, mi abbraccia calmo Rico quando è il momento di svuotare il secchio già pieno d’uva.
Doubi doubi doubi, sfringuella Anessa passandomi una zanchetta di nascosto.
Casse-croûte!, perché sono già le 9:30 e dal furgone spunta un tavolino pieghevole, presto scomparso sotto varietà infinite di paté, terrine, paté en croûte, fromage, pane e, naturalmente, vino. Ci raduniamo, animali, attorno al cibo, azzannato con le mani ancora sporche di terra e uva, mentre i bicchieri si svuotano lentamente, come il mattino richiede. Da una parte le vigne lontane, batuffoli di lana increspata di verde vivido e sensuali linearità; dall’altra le vigne vicine, delle quali si percepisce invece la durezza di una terra rossa e disseminata di pietre. Nel mezzo, i cerchi concentrici di persone nuove che sfruttano il pane per iniziare una conversazione e una sigaretta per terminarla: in vigna ci si stufa in fretta, anche di parlare.

Il resto della giornata è un infinito copia-incolla delle stesse gestualità: guarda l’uva, taglia l’uva, mettila nel secchio e svuota il secchio. Nel frattempo impreca contro la tua incapace predisposizione di accettare il più classico dei lavori da ufficio, mentre sogni un futuro radioso, che il tuo mal di schiena ti impedisce di raggiungere. Un sinusoide interminabile di crisi ed entusiasmi, alla cui sommità si posa un bicchiere di Ricard e una doccia calda che non toglierà il nero da sotto le unghie.

Lo chiamano l’apéro: un varco spazio temporale durante il quale la stratificazione esperienziale dei membri della brigata si manifesta. I meno esperti adoperano quel tempo per pulirsi, faro lo stesso con i propri indumenti, togliere il fango dalle scarpe e dare un senso alla catasta di oggetti impilati dalla fretta sul letto. I veterani invece, ignorando qualsiasi forma di obbligazione sociale, piantano i gomiti sul tavolo scandendo il tempo a sorsi, chi di vino, chi di pastis, mentre aspettano la cena per sentirsi legittimati a bere dell’acqua. La cena ristabilisce la tanto decantata égalité: come sempre zuppa per antipasto, tripudio di carne e tagliere di formaggi, prima della promozione al tavolo degli adulti, dove troneggiano, impettiti, Marc de Bourgogne e Chartreuse. A quel punto gli equilibri si snaturano definitivamente: Andy e Benjamin vanno in cantina a riempire un paio di bottiglie di vino, Anna gira una furbetta, io medito se fare lo stesso, Pierrick e Romaine cercano il buco nel bicchiere, mentre A. si interroga sul da farsi, quando Mafi già lo sa. Genti diverse venute dall’est dicevan che in fondo era uguale, avrebbe detto Faber se già non l’avesse dedicata a Tito: noi, vicini d’oltralpe che alla fine ci saremmo rinchiusi nel buio di un antico lavatoio trasformatosi in un bar per l’occasione.

Un blocco di pietra di una decina di metri quadrati, pieno d’acqua per metà, e circondato da mura alte (due) e mura basse sulle quali sedersi (due): questo il bar dove eravamo soliti iniziare le serate e finire le zanchette. Uno strappo di stelle verso nord, e il preludio del rimorso di una Luna raggiante a sud est. Anna che se ne va presto. Mafi che fa lo stesso. Io e A. che prima ci guardiamo, poi ci parliamo, poi lasciamo che il silenzio faccia di noi un atomo nell’infinito dell’Universo. Un unico corpo che ancora deve imparare a camminare, ma che già tiene lo sguardo ben alzato sulla strada. Chissà che i solfiti non si sentano pure da qua.

Alle 23 si spengono i lampioni.
Il sonno rivendica i suoi spazi, mentre l’onere dello stare al mondo imporrebbe di vivere e stravivere.

“Buona notte”, alla camerata colma di letti pieni e letti vuoti.

“Metto la sveglia alle 6:30”, come se fosse una novità.
Ma è sempre bello dire a mamma ti voglio bene.



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