“Che poi la stabilità emotiva si costruisce stando da soli.”
Lancia la mina sul tavolo della gastronomia senza la minima intenzione di fare prigionieri.
“No?”
Ci ripensa Elia, osservando turbato il mio volto massacrato dalle schegge dell’esplosione.
“Bo. Non lo so”, rubo al fato un ultimo sospiro, “se lo chiedessi a mio padre mi direbbe di no. Ora c’è tutta sta retorica del devi stare bene da solo per stare bene con gli altri…”
“Ed è vero!”
“Bah… è che poi a stare da soli uno si affeziona (a sé stesso) e fa fatica a stare con gli altri”, credo, esorcizzo, predico.
Il tavolo rotondo di Controvento era ormai stato seppellito dai piatti vuoti di un pranzo fagocitato ascoltando racconti di scopate occasionali e tensioni verso i massimi sistemi.
Il karma in ogni caso ci avrebbe premiato.
Se solo ci avessimo creduto.
ALWAYS FOLLOW THE GUITAR
Prima di tornare a Torino, ero in Francia a vendemmiare.
Prima della Francia, ero in Sicilia a lavorare all’Opera Festival.
Prima della Sicilia, ero su un pezzo di terra compreso tra Ventimiglia e Barcellona, in sella a Baghera.
Con lo sguardo fisso sullo schermo del telefono, in attesa di un’illuminazione, tento di ricordare dove mi sono perso nel filo del discorso delle ultime settimane. Forse sullo sterrato della Camargue, quando il vento mi sussurrava: “non sei nel posto giusto…”, lasciando incompleta quella suggestione di fuga. Da quel momento, la restante porzione di pianeta che mi divideva da Barcellona è stato un susseguirsi di domande: e se avesse ragione?
Vaglielo a dire al vento che sta sparando una stronzata. C’ho paura di Cupido, figuriamoci di Zefiro.
E mentre le gambe si erano dimenticate di cosa fosse la noia, Montpellier guardava il mare da lontano come se avesse perso suo marito durante una battuta di pesca. Pippo e Pera erano stanchi quella sera, ed io ne approfittai per ricordarmi cosa volesse dire ascoltare il suono di nuove voci. Fatalità: Thibault ed Emile, nella stessa città, quella stessa sera. Il carico di emozioni riavvolge il nastro ai confini del Mediterraneo: Valencia il primo, Peloponneso il secondo; due nodi inconsapevoli delle cuffiette che Dio (o chi per lui) ama dimenticarsi nelle tasche. Per fortuna ci pensa il tempo a sbrigliare la matassa nel sequel mitologico che vede Crono trionfare sul figlio.
Sarà poi il suono di una chitarra a Cadaqués a farmi rinsavire: “Always follow the guitar”, aveva detto un padre a sua figlia scendendo le scale che davano sul porticciolo. Fu in quel momento che sollevai la testa dal caldo, dal sudore, dalla paura di essere di troppo, e ascoltai anch’io la strada regalarmi una melodia. Così mi dimenticai del fatto che soffrissi nel sentire Pippo in competizione con me, e mi diedi il permesso di raccogliere fichi e more dalla strada: “non sei sbagliato”, mi aveva messo una mano sulla spalla Lag, “è che semplicemente vuoi fermarti a raccogliere un fico d’india”.
L’ultimo tratto prima di salpare a Barcellona, ci condusse nella fattoria di un vecchio lupo: un ingegnere hippie che si era ritirato nella più classica delle case sperdute tra i boschi. La mia coda scodinzolante si inceppava sugli occhi cauti e diffidenti di Pippo e Pera, scioltisi poi nella stanchezza di una birra e di un’ultima chiacchierata. Prima però un ruggente “Cazzo! Che culo!”, arcigno e violento, in risposta ai miei occhiali da sole ritrovati per caso nel bosco. Ormai non interpretavo più: vedevo il mondo sotto una lente soltanto, e quell’affermazione inchiodava Pippo dal lato dei cattivi. Nel tentativo di non offuscarmi la mente con il bisogno di emergere vittorioso, ricordo di aver rifiutato quell’assegnazione di fortuna: si vedevano le stelle e a loro andarono i miei ringraziamenti.
Il giorno dopo arrivammo a Barcellona, tra i festeggiamenti a cui solo le nostre fantasie erano state invitate. Finalmente, dopo 953km, sarebbero stati, nel migliore dei casi, i piedi, nel peggiore, la metro, i nostri unici mezzi di trasporto. La Festa di Gràcia era lì, pronta a rivestirci degli strati che la stanchezza del viaggio aveva spazzato via. Ora si poteva di nuovo bere, fumare, parlare, sparire per una notte, fare colazione ad orari separati… ci si poteva di nuovo incrociare, senza l’obbligo, o la presunzione, di doversi sovrapporre.
Quando mi chiedono “Com’è andato il viaggio in bici?”, non so mai cosa rispondere.
Bene sarebbe riduttivo.
Male non sarebbe abbastanza.
In quel momento spero solo di sentire il suono di una chitarra.
E mi rassereno nello scoprire che le amicizie sanno evolvere, se si dà loro il permesso di farlo.