“What would you do if you didn’t have to be perfect?”
“I guess enjoy the fresh minty sense of freedom. And a lot of sex. And love. And just feeling and giving my life for the stupid, mediocre pleasures of being human…”
“What would you do if you didn’t have to be perfect?”
“That’s a beautiful question and honestly I’m happy to reflect on it and realise that actually I’ve given up on perfection for quite some time now. What a relief! I can try, I can make mistakes and if needed I trust that I can fix them or handle the reality of it all 🙏🏼”
“Cosa faresti se rinunciassi ad essere perfetto?”
Dall’altra parte del mondo, nessuna risposta.
Ho chiesto a Joanna. Ho chiesto ad Afrodite. Ho chiesto a La Julienne.
Ho chiesto a quelle persone che mi hanno fatto conoscere la loro imperfezione senza vergogna, ma con la cura che si dedica ad una piantina timida nel germogliare.
Ho chiesto a loro quella stessa domanda che una meditazione guidata mi aveva sussurrato nelle orecchie, e che dalle orecchie si sarebbe poi conficcata nella gola, rimbalzando tra quelle pareti strette e cave, senza riuscire a scappare, né ad essere digerita.
BOLOGNA SELF-DESTRUCTION
Un bocadillo ripieno di un guazzetto di moscardini dà il via ad una voragine interiore (agg. [dal lat. interior -oris, compar. formato sulla prep. in «in, dentro»]: ossia “delle interiora”) di tavolate antropologiche e street food ammiccanti: un’inutile supercazzola per dire che ho messo in stand-by Valencia per un weekend, aprendo un nuova cartella dal nome Bologna.
“Que vas a hacer en Bolonia?”, avrebbe rotto la sacralità del mattino Sarah prima che entrambi ci fossimo eclissati nel lavoro.
“Voy por un concierto”, io bambino la mattina di Natale.
“Que chulo! Tu solo?”
“No, con mis amigos de Torino.”
“Ah vale! 🙂”, e l’emoji di un sorriso a trascendere dal reale al digitale.
E dopo essermi svegliato presto, troppo presto, per riuscire a combinare un’ultima sessione di workout prima del tracollo della mia massa magra, mi sono ritrovato in aeroporto con due ore e mezza di anticipo, causa pigrizia nel calcolare accuratamente i tempi dei miei spostamenti. E mo’ che faccio?, mi domando stanco e inconcludente, mentre osservo una scolaresca fare a cazzotti con l’hangover. Niente, parlo con Salvini, messaggio con Pippo, tento di parlare con Pigna, faccio la cacca, ascolto le solite musiche offline del mio Spotify, e salgo per ultimo sull’aereo. Posto 15A: tanto spazio per le gambe, poco per la testa stanca che vorrebbe rubare qualche ora di sonno sulla rotta del Mediterraneo.
Bologna mi ricorda subito che sono in Italia: 12€ di navetta, ultra-figa su monorotaia sòcc’mel!, mentre a Valencia i trasporti sono normali ma gratuiti per tutti gli under30.
Spagna 1 – Italia meno 12€
Arrivato in città sento il mio corpo essere perlustrato in tutti i suoi anfratti da un Sole seducente. Assicuro il giacchino alla spalla destra dello zaino, e mentre faccio lo stesso con la felpa, mi pento di aver lasciato le Bierkenstock orfane di piedi per un intero weekend. Fossi stato solesessuale ci avrei fatto l’amore con quella goffa stella gialla.
In Piazza Maggiore cerco Sofia.
Che poi trovo.
E che poi abbraccio.
“Come stai?”
“Che tu fai?”
“Vivi ancora a Firenze?”
“Ma dai, davvero?”
“Ho chiesto il licenziamento.”
“Mi paragono agli altri.”
“C’è un qualcosa nel mio sistema familiare che continua a triggerarmi: è come se in fondo non cambiasse mai niente.”
“Buono oh sto Cremant!”
… e tante altre diapositive di una conversazione iniziata ormai 5 anni fa, quando per la prima volta, la vidi saltare la corda nel cortile di Zeesse: una casa nella countryside olandese.
Nel mezzo due camparini, perché sono i vizi, a volte, a fare da collante tra le persone, e per chiudere un lungo abbraccio, perché sono i cuori, altre volte, a fare da collante tra le persone.
I saluti sfumano come DJ Franchino tra Vivere e Crazy horse, e dopo aver strappato un “a presto” a Sofia, resetto il sentimentalismo per accogliere Pippo, Ama, Renna e Aprile: 4 amici di Torino venuti in spedizione con la scusa del concerto di Jovanotti.
Palazzo Bianchetti, a due passi da Piazza Aldrovandi, è la nostra casa. Anche se le strade, i portici, i bar e le osterie, sembrano accoglierci con più calore e meno gentrificazione.
“Dovete mangiare?”, faccio gli onori di casa, mentre mi ritrovo in mano una Ceres calda che mi riporta alle intemperie del mio primo amore.
E dopo aver ciascuno eletto il proprio letto nella nobile dimora ottocentesca, ritornammo nel 2025 con due crescentine street food dal divisivo Indegno.
Per digerire un altro giro di camparini, e poi la bussola che si fa giostra nel battibecco tra un Prosecco e n° indefinibile di Gin Tonic.
Bologna è andata così: con una lista di consumazioni al bar e gli occhiali da sole a gridare al mondo rilassatezza.
Bologna è stata poi anche il concerto di Jovanotti e il tentativo di conoscere una ragazza con metodi vetusti e romanticamente impolverati: e se il primo mi ha conficcato le lacrime negli occhi a partire dal silenzio che anticipa la prima nota, il secondo ha fermato il tempo nell’incrocio di sguardi tra il me e la lei della quale tutt’ora non so il nome.
Sotto la linea del comun denominatore però loro: gli amici.
Quelle inspiegabili presenze che riempiono la scena come le palline sull’albero di Natale.
Perché me lo ha detto Sofia che gli amici sono anche questo: un’autostrada sulla quale fare viaggiare libere le parole. Che poi vi sia o meno una destinazione, questo non è importante, perché l’amico non è il da dove, o il verso dove.
E me l’ha detto pure Jovanotti, che nel bel mezzo del concerto si interrompe per chiedere chi di noi fosse lì con il proprio partner. E allora boato di mani alzate. E chi di noi fosse lì con la propria famiglia: e allora boato di mani alzate. E chi di noi fosse lì con i propri amici: e allora boato2 di mani alzate. “Teneteveli stretti gli amici, ché l’amicizia è una di quelle poche cose che scegliamo in questa vita. Non scegliamo il luogo, non scegliamo il tempo, non scegliamo i nostri genitori, e sono convinto che non scegliamo neanche l’amore. L’amore ci arriva. Ci investe. Per questo si dice “colpo di fulmine”, no? Ma gli amici. Gli amici sì che li scegliamo. E l’amicizia, quella roba strana che a fatica riusciamo a definire, la costruiamo mattoncino dopo mattoncino. A volte si dilata, altre si restringe. A volte si ammutolisce, altre implode in flussi incessanti di parole. L’amicizia… e prima di cantarvi la prossima canzone, vi invito a fare una cosa che troppo spesso celiamo dietro il velo della vergogna: giratevi verso i vostri amici e diteglielo. Vi voglio bene.”
1.2.3.4. rullante.
Dita sul piano.
Il palazzetto che si fa orecchio, e le parole a sfamare noi tutti voraci di emozioni:
Che cos’è un amico nessuno lo sa dire
Lorenzo Jovanotti, Un bene dell’anima
Centomila libri non lo sanno spiegare
Nonostante ogni giorno esca fuori uno
Con una teoria, con qualche bella idea
La filosofia non me l’ha ancora detto
Come mai un casino sembra un posto perfetto
Come mai un difetto renda bello un viso
Come niente più del caos può essere preciso
Quanto abbiamo riso e quanto rideremo
Come in quella foto che ho la faccia da scemo
Quante notti svegli a raccontarci storie
A cantare canzoni cambiando parole
Forse è tutto qui, che cosa vuoi che dica
Forse è proprio questo il bello della vita
Poter dire un giorno, “È stata una fatica”
Ma, ma ti voglio un bene dell’anima
…
Finiamo la voce.
Sprechiamo i saltelli.
Ingurgitiamo un tacos nell’attesa che si smaltisca il traffico.
I post concerti sono una cozzaglia di caotiche sensazioni.
In macchina canto Cremonini a scuarcia gola, mentre Aprile fa il corista e Pippo aspetta Ligabue.
A Bologna, Renna e Ama si muovono come felini per setacciare il territorio, finendo poi a loro volta stanati dall’alcool e dal macigno delle loro stesse aspettative.
Su una scala in via Belvedere, Evandro ci racconta dell’industrializzazione del mercato musicale.
Ma la notte è già altrove, e la nostra intraprendenza ci spinge più in là, al largo.
“Andiamo al Pratello?”, io mosso da una cavalleresca intraprendenza.
I corpi si alzano e il Pratello diventa la scenografia dei nostri ultimi passi.
Poi una pizza.
Poi l’album di figurine delle perversioni sessuali di ciascuno.
Poi un’ultima verticale.
E Pippo che ci traghetta, ognuno verso il proprio girone: il mio si chiama Malpensa.
Il volo notturno verso Valencia è in ritardo, e stanco di mangiare a cazzo, passeggio alla Feltrinelli come fosse un museo.
Cerco La vegetariana di Han Kang ma i miei occhi spenti vengono rapiti da una quarta di copertina:
“È piú semplice definire l’amore che l’amicizia, piú facile dire «ti amo» sembrando sinceri, che dire «ti sono amico» senza che il sospetto dell’impostura adombri le nostre parole. Per questo, la sola definizione dell’amicizia che mi pare accettabile è quella antica, che vede nell’amico un alter ego, un altro io – cioè qualcuno che rende amabile e grata la cosa piú odiosa: il nostro io […] E proprio perché – come la vita – è in qualche modo sempre insieme esaustiva e incompiuta, puntuale e manchevole, l’amicizia esige la nostra testimonianza”.
Giorgio Agamben, Amicizie
Pure i segnali si fanno banali.
Non ascoltarmi Universo, sono solo stanco. Sono solo grato. Sono solo.
“And you?”, mi avrebbe risposto Joanna a quel servizio scagliatole nella sua vita ai 200 all’ora. “And you? What would you do if you didn’t have to be perfect?”
“I’d be an artist.”
Credendoci, ogni giorno di più. 🌟