“L’aperitivo è una condanna. E pure la frangia.”, in campagna elettorale la Füsy dopo essersi dichiarata la cliente preferita dai ristoratori.
“Ah pensavo la Francia”, io, colto di sorpresa dal quel suo eventuale inaspettato patriottismo.
“Anch’io!”, Salvini a farmi da spalla, capo, amica in questi intensissimi giorni pre-Salone.
Una conversazione normale.
All’uscita da un’enoteca dopo una somma ingiusta, ma bella, di ore di lavoro.
La vita di città che ti spezza le ossa e ti restituisce farneticanti risate, e la brillante idea di scrivere una canzone.
La vita perfetta.
Perché dura poco.
E perché quel poco è pieno.
FARE BRICIOLE
Chi non mangia pane non fa briciole
È questo il mantra di Rotella, che sparisce, torna, fa il punto e si sotterra tra inaugurazioni, sopralluoghi e compleanni mai così tanto bypassati. Lui, che alla responsabilità ha aggiunto la fiducia, e chissà poi cosa si inventerà per tenere insieme i pezzi così scomposti di questi ammassi di vite.
Chi non mangia pane non fa briciole
Ascolto,
appunto,
e faccio.
Mi viene il panico quando mi dimentico di aver fatto giusto nell’assegnazione delle utenze wifi alle varie sale del Salone.
Però ho fatto
Sento la corteccia prefrontale partorire un bambino. Un mal di testa atroce mi prende la gola e mi presenta il conto: nausea.
Non sono abituato alle luci al neon.
Non sono abituato a nove ore di computer.
A nove ore di ufficio, di dita ballerine e di gambe immobili.
Così esco a prendere una boccata d’aria, ma ho smesso di fumare e ci metto un po’ ad abituarmi che il balcone è fatto anche per altro.
L’avevo già detto quattro anni fa: “ci sono però ho paura.”
“Paura di che, Jacopo?”, colto di sorpresa Rotella, il mio futuro responsabile di 4 edizioni del Salone del Libro e amico durante un Jova Beach Party
“Paura dell’ufficio, io vivo in un bosco”, mentre fuori i gatti giocavano alla lotta.
“Eh su questo Jacopo non ci posso fare nulla… il Salone si organizza in un ufficio”, chissà forse pentendosi di avermi già dedicato troppe energie.
“Eh certo”, sconsolato e sconfitto, “e poi ho paura della città: io vivo in un bosco Ale”, trasformando un colloquio di lavoro in una poltrona dallo psicologo.
“Eh neanche su questo ci posso fare nulla Jacopo, non possiamo spostare il Salone in montagna…”
“Eh certo”, vedi sopra, “e poi ho paura di non essere in grado, io vivo in un bosco.”, scavando dentro quel sì che non riuscivo a pronunciare di fronte all’offerta di lavoro.
“Questo no, Jacopo. Io ti ho scelto, e so bene il tuo percorso. So bene che questo tu non l’hai mai fatto, ma questa è una mia responsabilità, e poi ti posso dire una cosa? Anch’io ho paura… dobbiamo fare il Salone del Libro, mica la mia festa di compleanno.”
Abbraccio un albero.
Prendo un aereo.
Torno a Torino.
Però ho fatto.
L’ufficio si riempie come doni sotto l’albero di Natale: ogni giorno un’aggiunta. Gli spazi che si fanno preziosi. E l’aria sempre più irrespirabile. Non c’è welfare nei mondi delle fiere, e forse è questo il trucco per creare ancora più gruppo: è nella disgrazia ci si riscopre caritatevoli.
Scrivo caritatevoli, ma penso a tutt’altro.
Penso al conflitto, inteso come inafferrabile, incompreso, nebuloso.
Al conflitto tra la tensione e il piacere di stare insieme.
Tra la paura e la voglia di partecipare.
Tra qualcosa che respingo e qualcosa che mi tengo stretto.
Lavorare al Salone non ha senso.
Ma il conflitto mi dice che invece forse un po’ ce n’ha.
Io questo ancora non lo so.
Non me lo chiedo.
Io faccio.
Mangio pane,
e faccio briciole.