“Emotions are energies in motion”, mi grida una meditazione all’orecchio senza che io possa davvero sentirla.
Le mattine del salone sono un concentrato di ansia e di tensione: qualsiasi tentativo di atterraggio si perde nel pensiero di numeri, eventi, sgabelli dimenticati, tendiflex, e l’occhio sempre vigile e attento del mio Grande Fratello immaginario.
Non puoi deluderlo, mi dico, riferendomi al quel sentimento di riconoscenza senza fondo che nutro verso Alessandro, il mio capo. Ma, come con la meditazione, non ascolto neanche me stesso, e per una volta ringrazio il mare mosso dell’irrequietezza.
TIMONIERE SENZA APPRODO
Un paio di padiglioni più in là, un’energia mi sfianca il costato, stringendomi la gola in una felina contrazione di graffi.
“Come stai, Jacopo?”, Franca, Peppa, Greta, Mafi. Le mie colleghe in pausa caffè, chissà magari anche loro in affanno per la stratificazione delle vite che dal personale ci portiamo al professionale, e così via tra l’incetta di ruoli che, stanchi, ci dimentichiamo di ricoprire.
“Mmm”, io, senza proferire parola.
Loro mi guardano. E aspettano.
“Sono nervoso. Arrabbiato. Triste. Irrequieto.”, scagliando in quello stanzino tutta la mia instabilità.
“Che succede?”, Franca, dall’altro lato del tavolo.
Mi prendo del tempo.
Lo dilato e lo modello a mio piacimento.
E solo quando sono contento della forma che sono riuscito a dargli, rompo il silenzio.
“L’amore.”, pausa. “Il non-detto che mi prende la gola e me la strappa via”, pausa.
E me ne vado.
La paura di pesare sugli altri si prende il centro del palcoscenico: dalla regia spengono le luci, si chiude il sipario, e rimango nel comfort del mio non essere visto. Mi rintano in ufficio, dove le cose da fare mi restituiranno un’amara distrazione.
Fingo di leggere il palinsesto degli eventi di giornata, ma gli occhi si rifiutano di fare gli occhi, così rimetto insieme i pezzi e mi dirigo in Auditorium.
Sulla soglia della porta, Peppa mi rapisce in un abbraccio.
Io preda, mi lascio catturare dal suo riempirsi e svuotarsi del petto.
Appoggio il mento sulla sua spalla destra, e non faccio niente se non stringerla forte a me.
Poi uno sguardo.
Un superfluo grazie.
E le vite che riprendono la geologia della stratificazione.
Dall’altra parte del mondo, sono passato da essere umano e coordinatore. Il ruolo mi impone lucidità, chiarezza comunicativa, leadership. Il corpo mi chiede un pianto che, sono sicuro, arriverà e sarà liberatorio.
È la prima volta che porto me stesso all’interno del Salone. Che qualcosa del di fuori varca i cancelli di via Nizza 294. Non sto esercitando una professione e basta: sto esercitando una professione sostenuta dall’emotività di una vita che comunque, vive.
La stanchezza di ritmi di lavoro sfiancanti disinibiscono, non solo la capacità, ma persino il desiderio di controllo. Un “come stai?”, diventa un libro da scrivere, e il ritorno sono le mani del lettore che ne carezzano le pagine. Germogliano abbracci: nuovi, intimi, inaspettati. E nella custodia di ciascuno mi lascio proteggere.
“Sarà come andare in mare aperto. Dovremo diventare amici del mare, amici del vento.”, avevo detto il primo giorno al mio gruppo di lavoro.
“Questo è per te: sei stato il nostro timoniere”, Chiara, l’ultimo giorno, regalandomi un orecchino a forma di timone.
Le acque si calmano, passa la tempesta, ma la mia terra è sempre là: un paio di padiglioni più in là.