IL ROSA SHOCK DEGLI ELEFANTI

par | Juil 11, 2025 | Luglio 2025

Sono pazzo.
Non sono pazzo.
Sono pazzo.
No. Non è possibile. Sei solo stanco.

E scorporato dal mio corpo, e dal mio tutto, mi rendo conto che inizio a darmi del tu.

LA PALPEBRA SORRIDE

Tra I baffi di Carrère conservo due cartoline: il Vietnam, nella sua propaganda anti USA e una fatiscente galleria ferroviaria con sul retro la scritta “The gates of hell, enter the belly of the city.” Sul comodino, nello zaino, sul tavolo, sul divano: mi accompagno della fisicità del libro praticamente ovunque, senza però quasi mai leggerlo. Un paio di volte, questa settimana, sono riuscito tuttavia a farmici rapire.

Sdraiato a letto, condannato da un insopportabile dolore prima al collo, poi alle spalle, alle gambe e a tutti gli avamposti del cranio, mi ci dedico con meticolosa attenzione, confidando nel silenzio come unguento per lubrificare gli ingranaggi arrugginiti dei miei sistemi.
La notte dormo poco, per via delle mie precarie condizioni di salute, e quando poco prima delle 5:30 ho già aperto gli occhi, prima mi maledico e poi faccio lo stesso con Emmanuel Carrère per l’avermi fatto credere pazzo. Mi sovrappongo, come i palmi delle mani giunti a preghiera, al suo personaggio, sprofondato nel vortice della messa in discussione del mondo: i suoi baffi e il mio martellante mal di testa carnefici di alto tradimento. Niente sarà più come prima, annego nell’oblio del mio disfattismo.

“Lore pensaci tu!”, prego il mio santo e la scienza delle sue mani, “sto a pezzi e sabato c’ho il Kappa. Devi rimettermi in piedi.”
“Ho posto domani, alle 10:30.”, aprendomi le porte del paradiso.

Il mattino dopo infilzo a spiedino una serie di impegni: da Decathlon per comprare una canotta per il Kappa, all’orto per raccogliere il raccoglibile, da Lore per ridare un senso alla mia schiena, e da Maurino per conoscere la sua creatura: lo Sfusato Amalfitano fermentato. Da quest’ultimo però ci arrivo sciolto, invertebrato, amorfo, privo di una struttura capace di sostenermi: Lore aveva fatto di me il suo pongo, plasmandomi Demiurgo a sua immagine e somiglianza. “C’hai il bacino disallineato. Non sei in bolla. Hai la mandibola bloccata. La cervicale. La sciatica…”, una serie innumerevole di diagnosi accavallatesi, come i miei stessi nervi, nella geografia di un corpo solo. A fatica mi raccolgo, saluto Maurino e, come le bacchette di Shangai, mi getto a letto.

Al mio risveglio è ora di inscenare la festa.

A mia sorella chiedo dello smalto.
Un gilet.
Dei glitter.
Un passaggio verso casa dei miei.

Ad Ama chiedo se è tutto organizzato.
Lui dice: “Spero di sì.”
Io pure, tra me e me.

Dopo il febbrone, il mal di testa, le notti sudate, il corpo fetta di Groviera piena di buchi proprio là dove Lore aveva massaggiato con più forza; dopo le intemperie di una settimana di forzato allettamento, il Kappa mi faceva un po’ più paura.
E se fosse l’ultimo?
Se, non ascoltando i segnali del corpo, qualcosa di irreversibile si impossessasse del mio sistema nervoso?
Se scivolassi nel fuori controllo troppo in fretta, da rincararne il carico con peccaminosa spavalderia?
Se la condizione di allettato diventasse una costante?
Se…
… cosa penserebbero i miei genitori?

Affogo i pensieri nel sonno e nutro la disinibizione nel rosa shock degli elefanti.
La palpebra sorride, mentre mi immagino le fossette attorno alle labbra fare lo stesso.
Dalla nuca, una morbida carezza intenerisce la fronte prima e gli zigomi poi.
Il collo si scolla, mentre le spalle abbassano di qualche centimetro la loro marmorea fisionomia.
In estasi, aspettiamo tutti che passi il treno.
E nell’attesa ci muoviamo fauni, dalle gambe animali e dalla testa ancora troppo umana.
“Tu l’hai visto passare?”, la domanda più ricorrente.
“Il treno? No, non ancora”, trasformando quel tempo sospeso in fratellanza.
Ormai certi del ritardo, compriamo un altro biglietto.
E di nuovo, con gli zoccoli consumati dal ballo, guardiamo il punto di fuga dei binari con mistica speranza.
Qui non succede nulla, pensiamo in tempi diversi, mentre dagli altoparlanti continuano ad annunciare gli arrivi.
“Basta io me ne vado!”, annuncio agli altri fauni del branco, e aggrovigliati come una matassa tra le fila delle altre specie, animali e non, cambiamo stazione.
Il cambio di frequenze, e di destinazione, attiva in noi nuovi, mefistofelici ritmi.
Le zampe, pelose, ispide di pelo e di terra rotta dal ballo, calpestano frenetiche un tappeto di polvere e polvere gialla.
Le braccia disegnano quadri di Kandinsky.
E il branco si sbranca, lasciando a ciascuno il piacere del viaggio.
L’Africa dal finestrino.
Il mare nelle sue onde piatte di cristallo.
Il vento di montagna che sorpassa la pelle nuda.
Bali era già un ricordo.
Mentre l’Europa tornava a sbattere i pugni sulla storia.

A fine corsa, la solita domanda: “Tu l’hai visto passare?”
“Il treno? No, non ancora.”
E un altro elefante rosa travestito da controllore, era lì, pronto a venderci l’ennesimo biglietto.

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